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In the Mouth of
Madness, USA, 1994 di John Carpenter, con Sam Neil, Julie Carmen, Jurgen Prochnow, Charlton Heston Se esiste una caratteristica comune a tutti i registi che si sono formati in quella che, con un certo grado di semplificazione, chiamiamo New Hollywood e, più precisamente, nel filone del New horror (altra semplificazione) della seconda metà degli anni settanta, certamente consiste in una fascinazione per lo sguardo, non più lo sguardo oggettivo, verosimile, onnisciente della m.d.p. del periodo classico (smontato da tutti i grandi autori di quel cinema), bensì lo sguardo in soggettiva, lo sguardo individualizzato, imperfetto, impregnato di sadismo e perversione magari, la volontà di vedere del singolo oltre le apparenze e soprattutto oltre le convenzioni visuali. Carpenter, in questo clima che supera gli spazi dello stesso cinema americano del periodo, è cresciuto (la soggettiva di Halloween arriva con pochi anni di ritardo rispetto al piano sequenza di Antonioni in Professione Reporter), costruendo gran parte del suo universo poetico sulla contrapposizione tra volontà di vedere, che dunque rimette sempre in discussione i risultati acquisiti, e volontà contrapposta di cristallizzare in forma e regole le acquisizioni dell'occhio. Ne Il seme della follia, questa dialettica tra momento della ricerca di vedere e momento della organizzazione di ciò che si sia visto assume esplicitamente i tratti di un trattato teorico non soltanto inquietante, ma anche molto amaro e pessimista. La volontà di vedere, impersonata dalla figura cardine di un agente assicurativo ne esce sconfitta e dalla messa in scena non si esce, se non con la follia, anzi forse neanche con quella. Hobb's end, il 'non-luogo' caotico assente anche dalle cartine geografiche, non è solo la versione folle di una realtà cupa depurata ideologicamente, come in altri film di Carpenter, dove comunità perfetta e utopica o comunque con forti regole sociali, proprio per la sua incapacità di visualizzare l'irrazionale e il negativo, dall'irrapresentabile rimane assediata (da Distretto 13 a Ghosts from Mars), ma, cosa ben peggiore, è un caos anche esso preordinato dalla mente di un demiurgo (che poi sia Dio, uno scrittore folle, il capitalismo, la società di massa poco importa, sempre una minaccia è) tanto quanto la presunta realtà, quindi tutt'altro che liberatorio. Facciamo un esempio: in una sequenza del film, Sam Neil tenta di fuggire da una folla inferocita con un'automobile e si ritrova sempre e comunque al punto di partenza, davanti a quella folla inferocita. Non sapendo ancora di essere un personaggio di Cane (nome e possanza da personaggio di Welles, più che riferimento a King; e i personaggi wellesiani sono sempre monarchi rinchiusi in spazi geometricamente improbabili e distorti come Xanadù o Tijuana) gira a vuoto, letteralmente non può uscire da uno spazio che preordina l'ordine come il caos, la distruzione e anche lui stesso. Se negli anni ottanta gli eroi (?) di Carpenter potevano dominare il disordine in quanto fuori dalla legge e quindi dalla visione consolidata (Jena Plissken con un occhio solo) e potevano orientarsi in spazi dalla geometria incoerente (in questo Carpenter somiglia ad Argento), in quanto dotati di uno sguardo più duttile, qui questa duttilità epica e romantica, degna degli eroi del western tanto amato dal Nostro, questa capacità di immergersi nell'irrazionale, diventa piuttosto la necessità, ben più ambigua, di adeguarsi più o meno alle regole della rappresentazione cercando di farle proprie. Sam Neil deve sapere di essere già un personaggio, più che vedere al di là delle regole, più che uscire dalla rappresentazione, a costo della caduta nella follia, deve cominciare a vedere nelle regole, tra le pieghe della rappresentazione. Per cavarsela con un giochino di parole, volontà è rappresentazione, sapendo che proprio nei codici si cela il rimosso, l'irrazionale e il mostruoso. I personaggi di Carpenter (e il regista stesso, che in loro si immedesima), ritrovano il loro anarchismo, la loro singolarità e arrivano alla consapevolezza della maturità solo diventando postmoderni. La mutevolezza della realtà (e il suo orrore) sono già nella forma. |