Ritorno a Cold Mountain
Troppo glamour per essere vero
di Adriano Ercolani

 
  Cold Mountain, Usa, 2003
di Anthony Minghella, con Jude Law, Nicole Kidman, Renée Zelwegger, Philip Seymour Hoffman, Donald Sutherland, Natalie Portman.


Dopo l’insopportabile Il paziente inglese e l’appena più centrato Il talento di Mr. Ripley, Anthony Minghella conferma con questa sua ultima sontuosa fatica di essere il cineasta più leccato presente a Hollywood.
L’eleganza della regia, la perfetta creazione della messa in scena, i risvolti biecamente melodrammatici della sceneggiatura alla fine hanno disperso le potenzialità di un film che avrebbe potuto essere, in teoria, opera assai interessante. Già, perché Ritorno a Cold Mountain parte davvero bene: per la prima mezz’ora l’alternanza di flashback che raccontano la doppia storia dell’innamoramento dei due protagonisti da una parte, e la barbarie della guerra civile americana dall’altra, funzionano a meraviglia. Minghella per un attimo si dimentica addirittura di essere un regista soltanto esteriore e confeziona con rara crudezza, una battaglia, quella di Petersburgh, in cui corpi e volti vengono stretti in una ressa davvero angosciosa. Peccato che poi, a battaglia conclusa, il film si trasformi un una sequenza praticamente ininterrotta di deliziosi quadri rurali, di scene elegiache, e perda del tutto di vista il realismo (appena) intravisto all’inizio. Per carità, sulla fattura della messa in scena non c’è assolutamente nulla da dire: le scenografie di Dante Ferretti, le musiche di Gabriel Yared e soprattutto la fotografia di John Seale compongono una sinfonia tutta autunnale che incornicia la storia in una messa in scena assolutamente preziosa. Ma l’emozione della storia? E l’attenzione al mondo interiore dei personaggi? Minghella ha creduto di potersela sbrigare con la voce off dei due protagonisti che leggono lettere o brani di romanzi sdolcinati. Peggio non poteva fare per rovinare atmosfere, sentimenti, emozioni. Dal canto loro, la Kidman e Renée Zellweger fanno a gara per essere, rispettivamente, il più glamour e il più rozzo possibile. A forza di duettare con i propri stereotipi, infatti, le due attrici perdono di vista i propri personaggi, e diventano quasi due macchiette. Molto meglio invece Jude Law, intenso e credibile soprattutto nei lunghi silenzi. Per il resto, lo script di Minghella, purtroppo, non riesce a far altro che ammonticchiare altri grandi caratteristi in ruoli piccoli e secondari. Ed ecco perciò che Philip Seymour Hoffman, Donald Sutherland, Natalie Portman, Brendan Gleeson, Ray Winstone, Kathy Baker e Giovani Ribisi compaiono in Ritorno a Cold Mountain per brevissimi intervalli, dando in qualche caso prova del loro enorme talento seppur in ruoli abominevoli (è il caso soprattutto di Hoffman) ed escono di scena senza motivo, così come senza motivo vi erano entrati.
Insomma prendete il miglior cinema di James Ivory, che basa la propria ragion d’essere sull’eleganza della trasposizione estetica, in gran parte soavemente esteriore, di opere letterarie (tenendo presente, ovviamente, che Edward Morgan Foster probabilmente possiede ben altro spessore di Charles Frazier…); ebbene, a questa precisissima poetica cinematografica – certo, forse non condivisibile, ma pur sempre lineare – togliete coerenza, linearità e capacità di sostenere la visione con un forte scheletro drammaturgico. Fatto questo, probabilmente avrete l’idea sufficientemente esatta della direzione che sta per prendere il cinema di Anthony Minghella se non corregge in corsa il tiro. Se si vuole per forza far rivivere l’ampiezza e la grandezza delle messe in scena di un tempo, a nostro avviso rimane comunque indispensabile puntare ad una storia “forte” che serva da impalcatura ad immagini di sicuro effetto, e sotto questo punto di vista la non dissimile operazione de L’ultimo samurai della coppia Cruise/Zwyck ci pare molto più riuscita (non ce ne voglia la bella Nicole…).
Ritorno a Cold Mountain rimane invece una serie di cartoline splendide da vedere, un tripudio di piccole micro-storie non autosufficienti, che si susseguono nella ricerca di un melodramma corale che resta sospeso, inespresso, trattenuto. In questa maniera tutto quello che di buono questo film possiede, o avrebbe potuto (e dovuto!) possedere, è andato sprecato.