Ubriaco d'amore

Il cinema bomba
di Luca Perotti


Backtrack:
Ubriaco d'amore

  Punch drunk love, USA, 2002
di Paul Thomas Anderson, con Adam Sandler, Emily Watson, Luis Guzman, Philip Seymour Hoffman

Già nei suoi film precedenti Paul Thomas Anderson aveva dimostrato di volersi svincolare, a parità di temi, da quel ritiro scorbutico e soffocante che si limitiva a descrivere un mondo interiore macchiato dalle nefandezze che la famiglia, culla e tomba dell’America degli individui destinati a trasformarsi in adulti maldestri e insicuri, aveva prodotto. Un superamento autoriale di quello scenario politicamente scorretto che si ergeva a baluardo di accusa e lamento e che caratterizza ancora molto cinema indipendente. Lo ha dimostrato con il consapevole assorbimento delle potenzialità della macchina cinema sia dal punto di vista narrativo che da quello specificamente registico, mantenendo la sacrosanta identità di cineasta indipendente, nelle idee e nello sguardo, oltre che nella capacità di saper imparare e fare propria la lezione dei maestri del passato prossimo (Scorsese e Altman in particolare). La sua mano artistica continua, anche in questo Punch Drunk Love, a essere simile ad un cursore che disegna traiettorie di sublime armonia visiva, che compone, grazie anche a sceneggiature puntuali, un cinema che ricorda la mentalità della camera stylo; un cinema d’autore che ostenta la sua firma, il suo riconoscimento e che non smette di pensarsi sempre in virtù di un rinnovamento personale. Un’evoluzione visibile, quella di Anderson, che dopo essere approdato nel solido, ampio affresco di Magnolia, si rimette in discussione con la confezione di una commedia romantica che, freneticamente, di scena in scena, rimanda sempre a qualcosa d’altro pur mantenendo intatta la tela che l’accoglie, con un rispetto degli stilemi del genere e al contempo, una distorsione degli stessi per un percorso filmico ‘in divenire’ che ha come fulcro un personaggio che riassume e trascende quelli andersoniani del passato e contiene in sé anche tracce tangibili di quelli creati da altri cineasti come Neil Labute o Todd Solondz.
Inizia in uno squallido, disadorno magazzino nella penombra, la parabola d’amore e rabbia, di consapevolezza e crescita di Barry Egan. Seduto alla sua scrivania, si accerta di un’offerta promozionale da sfruttare con maniacale minuziosità. Un’inquadratura statica, diversa dagli incipit di Boogie Nights o Magnolia ma funzionale alla presentazione di un uomo saturo della propria frustrazione e di cui Anderson seguirà passo passo l’uscita dal guscio a colpi di reazione sia agli eventi della sua avventura kafkiana sia a quel passato che continua ad incombere su di lui. Ma non c’è la pesantezza e il disagio dei figli perduti e sofferenti di Magnolia: si avverte fin da subito un tratto ironico che avrà picchi di surrealtà e di grottesco, di humor nero e di tragedia ma senza mai tradire l’intenzione di voler rileggere e riscrivere il genere della commedia romantica. Funzionale è la scelta di un attore come Adam Sandler: la sua espressione attonita e fragile rispecchia la perplessità interiore mischiata all’invulnerabilità e all’impotenza di chi vive in un paese di hot line e concorsi a premio - palliativi emblematici di una società alla deriva - di chi si trascina un’infanzia vissuta con sette sorelle ossessive che ancora ricordano le sue magagne infantili. Come se nessun errore anche banale come aver infranto una vetrata con un martello possa essere espiato definitivamente senza dover necessariamente continuare ad incidere nell’essenza di un animo.
Sono una brava persona” esclamerà Barry verso la conclusione di fronte ad un dirimpettaio laido e stolto che tanto somiglia a quei criminali postmoderni portati sullo schermo dai fratelli Coen.
Un film che della commedia rispetta e valorizza il valore imprescindibile del tempo: calcolato, studiato, scandito da una colonna sonora adoperata come arricchimento e sottolineatura, senza sbavature o ridondanze ma sempre in funzione di una regia organicamente ansiogena, somigliante al personaggio pedinato. Un senso del ritmo che alterna momenti di stasi a squarci di crescendo come in una sequenza del tutto anonima dell’invito a colazione da parte di Lena (con l’ausilio della sorella) ravvivata dall’andatura battente delle percussioni innestate su sapienti piano sequenza che accelerano il respiro narrativo, lo fanno fluire per poi interromperlo, sempre sul viale di un magico presagio che qualcosa stia per accadere, per esplodere in un atto di escandescenza. Una narrazione congegnata come una bomba ad orologeria in cui il tempo si carica di suspense per poi interrompersi, congelarsi in uno stato di spigolosa ipnosi prima di ripartire con premura e detonare in un raptus.
Come quando gli inseguitori di Barry tamponano la sua macchina che prende a roteare vorticosamente: il primo piano di Lena, ferita e sanguinante è una sospensione del respiro, un istante di concentrazione che si sfoga un istante dopo nella brutale irascibilità di Barry. Gli atti di violenza permeano il carattere di Barry ostacolato nel raggiungimento della felicità sentimentale da ostacoli esterni (le sorelle, i sicari del criminale stolto, le telefonate minatorie). La complicazione non nasce nel suo intimo né in quello di Lena, fatina ideale, il miraggio di una vita finalmente affrancata dagli spettri strozzanti del passato e che diventa tangibile gradualmente. Punch Drunk Love è una fiaba ma è anche un musical nella composizione cromatica o in quelle geniali chicche che accendono di vita questo corpo di energia soffocata, vestito di blu elettrico.
Barry balla il tip tap nel supermercato, si avvia a cercare la sua donna alle Hawai accompagnato da una soave melodia retrò coprendo in un ralenti stregato la distanza che lo separa dall’aereo. Un’ombra carica d’incantesimo che poi, senza mai smarrire quella titubanza di chi ha ingoiato troppi rospi, aspira frettolosamente al bacio sotto un portico. O che viene abbracciata, mentre strimpella una pianola scassata. Il finale di Punch Drunk Love contiene molto del senso "tattico" dell’ultimo lavoro di Paul Thomas Anderson. Perché è l’happy end di una love story che finalmente ha preso il via definitivo, ma inserito in un posto abbandonato, da qualche parte nella San Fernando Valley, tra due innamorati emarginati e insicuri, al suono mezzo stonato di una pianola entrata nella vita di Barry un po’per caso.
Anderson gonfia e ridimensiona, non si lascia mai trascinare dalla prevedibilità del genere e per questo interrompe e passa ad altro, “arriva tardi e se ne va presto” mischiando l’alto con il basso, il sublime con il grossolano, strizza l’occhio al cinema classico ma lo condisce con dialoghi strampalati e spiazzanti.
Perciò chiude una sequenza con una dissolvenza a iride sui due innamorati mano nella mano diretti verso la camera da letto e riapre con uno scambio di battute da cinica e ridanciana black comedy.
La sequenza in cui Barry fa il suo ingresso alla festa organizzata dallo stuolo di sorelle arpie, oltre a racchiudere, nell’uso della voce off, nella scenografia e nei dialoghi tutto l’ infittirsi del disagio e dei complessi accumulati in anni e anni di frustrazioni, si dipana con un andamento che da comico passa improvvisamente al tragico. Barry distrugge un’altra vetrata, chiede con imbarazzo un aiuto psicologico a suo cognato (che fa il dentista) per poi scoppiare in un pianto sordo e profondo.
Il mondo esterno continua ad essere per lui fonte di guai e turbamento; un mondo che però sa offrire inaspettati pretesti per una seconda chance da cogliere al volo. Sembra questo il valore simbolico da attribuire a quella pianola lasciata sul ciglio della strada, proprio in contemporanea ad un incidente stradale. Il disastro di un mondo pazzoide e un dono inaspettato si mostrano contemporaneamente. L’oggetto arriva all’improvviso nella vita piatta di Barry e innesca la sua avventura. Una cesura che apre e chiude la favola tragica di un uomo meno ridicolo di ciò che lo circonda.
La pianola è lo spiraglio piovuto dal cielo, la sibillina seconda chance per la sua vita sconsolata e passiva che apre un varco in un tessuto impermeabile di angoscia dove brulica un intimo dramma di alienazione.