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il Matrimonio è un affare di famiglia
Clubland, Australia, 2007
di Cherie Nowlan, con Brenda Blethyn, Khan Chittenden, Emma Booth, Richard Wilson, Frankie J. Holden, Rebecca Gibney, Philip Quast

I predatori dell’indie perduto
recensione di Lorenzo Conte



Stavolta c’ero quasi cascato. Ero già pronto a fare un passo indietro e fare autocritica su come noi cinefili e critici avessimo disimparato come sapersi emozionare di fronte alle piccole storie forti di tutti i capolavori e i bei film che abbiamo visto negli anni.
Ma la domanda arriva subito dopo, puntuale: ma davvero il cinema indipendente è solo questo? Davvero è solo piccole storielle di provincia fatta perlopiù di eterni conflitti tutti interni alla famiglia divisi tra figli timidi e gentili e genitori brillanti, alla mano e ultraoppresivi? O non è questa la piega che l’indie ha preso in quasi tutto il mondo? Se indipendenza significa proprio libertà di espressione e dalle imposizioni di regime delle major, possibile che questa libertà si risolva nell’ennesima commedia sofisticata a metà tra serio e faceto in un alternarsi di battute al vetriolo(?) e piagnistei infiniti con scene madri degne di melodrammoni d’altri tempi? O siamo di fronte ad una standardizzazione dell’indie, la nuova facciata lucrativa delle major, lupi travestiti da quegli agnelli che altro non sono che le piccole divisioni indipendenti delle stesse? La domanda inizia ad essere retorica: ormai è abbastanza chiara la direzione presa dall’indie, perlomeno quello dei paesi anglofoni.
Dopo Lars e una ragazza tutta sua, la Famiglia Savage e Juno, il Matrimonio è un affare di famiglia è l’ennesima e ulteriore conferma a quanto ipotizzato. La sostanza è sempre la stessa. Piccole storie bla bla bla, provincia bla bla bla, sentimenti bla bla bla, tra commedia e tragedia bla bla bla, personaggi spigliati bla bla. Copia conforme di troppi altri film indipendenti, figli di una formula che funziona e che Hollywood et similia hanno fatto indebitamente loro riducendo questo tipo di cinema a una specie di tarallucci e vino, annacquando il suo vero spirito nella produzione in serie di film tutti uguali e tutti diversi. Parafrasando Benjamin: il film indipendente nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Siamo di fronte alla versione consumistica della produzione e fruizione cinematografica: sempre lo stesso modello con sempre qualcosa in più, come ad esempio i telefonini. Riempire il mercato continuamente, rinnovandolo, anestetizzandolo: ecco la missione. E lo spettatore/consumatore ci casca e se ne compiace, (ri)producendosi in enne-varianti di: “Finalmente una commedia intelligente che fa sorridere e anche piangere” o in infiniti varianti di “carino” da “delizioso” a “simpatico”. Inutile dunque analizzare la sostanza. Non ci resta, quindi, che cercare di commentare le confezioni: ma purtroppo per il Matrimonio è un affare di famiglia anche questa vacilla.
La regia è anonima se non per i passaggi di scena (soprattutto in senso temporale) con le profondità di campo delle luci in dissolvenza; la fotografia fa il suo dovere ma nulla più, il ritmo di montaggio c’è ma si poteva fare di meglio. Attori bravi, ma schiavi di una sceneggiatura piuttosto banalotta; da urlo invece la colonna sonora (come in Juno, d’altra parte). Rimangono al contrario diversi errori di trama e alcune scene inspiegabili. Insomma, inutile girarci intorno: è cinema come oggetto di consumo quello de il Matrimonio è un affare di famiglia. Cercate di ricavarne più emozioni possibili, quel poco per assuefarvi sul momento, tornare a casa tranquilli e soddisfatti, e addormentarsi pensando: “Finalmente una commedia intelligente, che fa sorridere e anche piangere”.
Tutti contenti, nessuno deluso. Fino al prossimo Indie.