Magdalene
Coerenza ed oppressione
di Adriano Ercolani


Venezia 59 - 2002
  the Magdalene Sisters, Scozia/GB 2002, di Peter Mullan, con Geraldine McEwan, Eileen Walsh, Nora-Jane Noone, Anne-Marie Duff

The Magdalene Sisters denuncia la condizione di schiavitù in cui molte "ragazze perdute" si trovarono una volta rinchiuse negli istituti e nelle lavanderie delle suore di Santa Maddalena; il film racconta la storia di tre ragazze entratevi nel 1964. E', ovviamente, un film che punta l'indice e si schiera contro questa istituzione fortemente repressiva e vessatoria; ma è un film che, più in generale, vuole denunciare la condizione di segregazione ed ottusità culturale in cui si veniva a trovare una qualsiasi ragazza (o donna) nell'Irlanda degli anni '60, non in possesso di un'istruzione adeguata o di un reddito familiare elevatissimo. Peter Mullan ha perciò diretto un film che, dietro il semplice e diretto messaggio che lancia, cerca di estendere un discorso molto più ampio, che coinvolge tutta la sfera sociale anglosassone di quel periodo, e non soltanto i conventi-prigioni delle suore della Maddalena: non a caso, tutte e tre le protagoniste vengono presentate attraverso un prologo in cui è la società, impersonata da docenti insensibili o addirittura genitori ottusi e maneschi (Mullan a questo riguardo si riserva un cameo d'attore decisamente esplicativo), a recludere le ragazze. Il grande merito della pellicola è che ne portare avanti il discorso di denuncia di certo non va per il sottile, ma evita sempre il facile sensazionalismo di scene ad effetto o momenti di gratuita violenza fisica e psicologica. In più, l'autore racconta una storia adoperando al meglio il mezzo con cui ha voluto raccontarla, e cioè il cinema. Chi ancora non ha visto il film di Mullan potrebbe pensare che sia un "classico" lungometraggio di denuncia, e che debba la sua importanza e le sue qualità di opera cinematografica alla forza del tema trattato. Ovviamente è così, ma guai a pensare che sia soltanto questo. In The Magdalene Sisters c'è davvero tanto cinema, inteso come puro esercizio dell'arte visiva, e ciò si unisce splendidamente alla carica eversiva e di denuncia che l'autore ha voluto trasmettere allo spettatore raccontando questa vicenda. Peter Mullan, che già con l'esordio di Orphans (id., 1998) aveva dimostrato di possedere un'interessante e sardonico occhio di cineasta, con questa sua opera seconda ha cambiato del tutto registro rispetto all'humour nero del precedente lavoro, ed ha scelto la strada del rigore più assoluto, oseremmo dire dell'ascetismo visivo: quasi tutto in questo film infatti è geometrico, ordinato, misurato; in questo caso, l'estetica propria della narrazione del regista si sposa alla perfezione con la storia e con l'ambiente raccontato, dove l'ordine ed il rigore vengono usate come arma di prigionia, di vessazione, di tortura fisica e psicologica. Già per questa coerenza tra storia trattata e modo di trattarla Mullan meriterebbe di essere chiamato regista con la "R" maiuscola, ma non basta. Vi sono poi intere sequenze in cui riesce a risolvere situazioni logiche con un uso sorprendente della macchina da presa e del ritmo cinematografico nel senso pieno del termine, e cioè nella commistione di suono ed immagine. Prendiamo ad esempio la prima, bellissima sequenza della festa iniziale, in cui il destino di una delle tre protagoniste viene deciso dai parenti in pochissimi minuti: la ragazza, appena violentata dal cugino, piange e corre e confessarsi da una cugina per ottenere giustizia; non sentiamo cosa dice, perché la musica della festa sovrasta tutto; ben presto la voce si sparge tra gli invitati, e subito si decide il da farsi; lei segue con lo sguardo zii, cugini ed altri parenti che si scambiano sguardi d'intesa e di condanna: lei finirà nel monastero senza che noi sentiamo una parola, ma riuscendo benissimo a capire tutta l'assurdità della situazione e della rigida cultura maschilista che vige in quel luogo. Il regista, che avrebbe potuto impiegare scene e minuti per raccontare il processo e la condanna della giovane innocente, risolve tutto in pochi secondi, e soprattutto adoperando immagini e suono cariche di significato, dove tutto è raccontato per immagine e suggerito dalla musica. Anche nel resto del film poi la regia sposa con grande eleganza la via dell'austerità, dell'immagine spoglia ma estremamente significativa, lasciando che siano situazioni, personaggi, silenzi a parlare ed a raccontare la vicende di queste povere recluse. Anche l'unico mezzo di sottolineatura drammatica che Mullan si permette, le bellissime musiche, non sono mai invasive, e vengono adoperate con elegante e preciso dosaggio.
Insomma, alla fine la bellezza più profonda di The Magdalene Sisters sta nell'essere opera che mira a scuotere l'animo, ma punta a questo risultato con un arma precisa e perfettamente utilizzata: il cinema. Quello più arduo, tagliente, non pacificatorio. Si può accettare questa provocazione, che perciò non è soltanto etica ma pure estetica, oppure rifiutarla. Non si può negare a Peter Mullan il suo trovato stato di autore a tutto tondo.