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Far from heaven,
Usa, 2002 di Todd Haynes, con Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert Nella società delle apparenze, la conservazione e lo sfoggio di uno status sociale accettabile presuppone l'adesione ad una serie di regole di comportamento in direzione di una virtuosa omologazione che possa servire da scudo per eventuali sbavature viziose. Lo stesso tipo di adesione a norme linguistiche e narrative vigeva nel cinema classico hollywoodiano profondamente e coscientemente ancorato ad una robusta struttura d'appoggio sulla quale tessere acute analisi sotterranee. La stessa strategia, quindi, con la quale Douglas Sirk costruiva i suoi melodrammi (in)credibili, così spiccatamente impliciti da sembrare una glorificazione della privacy, così incantevolmente tenuti in ostaggio dal rispetto dei codici e delle censure da gonfiarsi di enfasi e lacrime. Gli squilibri calcolati di quei film ritornano in Far from heaven, sontuoso ingresso di Todd Haynes in quel territorio di sperimentazione già visitato da Gus Van Sant con il remake-fotocopia di Psyco. Far from heaven è un calco impeccabile del linguaggio sirkiano e, più in generale, del modo di filmare degli anni cinquanta nella maniera in cui essi sono entrati nel nostro immaginario. La riproposizione del modello di riferimento si delinea nella scelta dei rapporti spaziali tra i personaggi, nei raccordi di sguardo, nei movimenti di macchina, nei colori. Una concordanza di codici che stabilisce il rapporto di aderenza tra la stampa originale e il suo facsimile. Invece di infilarsi nella voragine buia di uno sperimentalismo ancora privo di criteri, Haynes sceglie dunque la via dell'imitazione come estremo atto avanguardistico in quanto a sua volta irriproponibile, quindi destinato a rimanere unico e originale. Sarebbe impensabile, o almeno non auspicabile, infatti, considerare Far from heaven come traino per ulteriori esperimenti simili, per altre riproduzioni non di un film ma di un modo di fare film. Nel momento in cui la denuncia delle verità scomode soggiacenti al tessuto immacolato della famiglia ovvero della società viene riproposta senza sosta in decine di storie tutte simili tra loro, (con un'insistenza in questo caso veramente ricalcante, nonché moribonda), la mossa spiazzante consiste nel ritorno "falsario" verso la coerenza di una forma autentica in quanto specchio (della vita) delle contraddizioni, degli impedimenti dell'epoca che l'ha generata. Haynes non si lascia contaminare dall'abitudine di lasciarsi attrarre vertiginosamente da pericolose e sorpassate puntate nel metalinguaggio alla ricerca di una legittimazione estetica ormai ridicola. Allo stesso modo, mantendosi coerente ed equilibrato assicura la giusta distanza da ogni sfumatura trash, riuscendo a mantenere saldo il regime di verosimiglianza. Analogamente a quanto accade con la visione dei classici di Sirk, l'iniziale e sarcastica diffidenza sulla credibilità di ciò che si vede viene sostituita dall'adesione totale alle coordinate della storia narrata, in quello che è semplicemente un puro patto stretto con il Cinema. Le perplessità che possono scaturire dalla comprensione graduale del progetto di Haynes terminano nel momento in cui si accetta di ubbidire al patto. La differenza rispetto a quando si assiste ad un classico però, risiede nel mantenere vivo un legittimo sospetto sul dominio di un progetto talmente delicato. Una sorta di clausola che spazzerebbe via la fiducia concessa alla competenza e al coraggio dell'autore. Il sospetto si sgretola in virtù dell'irreprensibilità del lavoro di Haynes, capace di reggere il gioco perfettamente fino all'ultimo fotogramma. La variante rispetto alle opere di Sirk si trova, però, nella differenza di trattamento degli avvenimenti, sfidati direttamente sul prezioso campo della privacy. Oltre ad introdurre espressamente un tema come quello dell'omosessualità che non aveva chance di trovare spazio all'epoca di Sirk, Haynes riesce ad essere abilmente un po' più esplicito anche su tematiche scottanti come il desiderio di adulterio, l'ipocrisia liberal, la segregazione razziale. Gli è sufficiente socchiudere la porta della stanza dei segreti, penetrando nelle incrinature che giacciono in superficie senza però mai affondare il colpo poiché farlo significherebbe voltare le spalle alla retorica di base. Con questa strategia restituisce il travestimento cronico dell'America di Eisenhower, la reclusione dei sentimenti e degli impulsi sessuali forzatamente irretiti dai codici imposti dalla società. Si tratta del palese fallimento dell'ottimismo americano, di cui la figura di Julianne Moore rappresenta la massima personificazione; ma la riproposizione degli stilemi degli anni cinquanta e l'aggiunta delle suddette varianti facilita una ricezione più approfondita di un decennio che costituisce ancora la radice indistruttibile di un miraggio politico e sociale che non ha mai veramente acquisito consistenza. Riproporre temi e stilemi dell'epoca ma guarendoli dall'addomesticamento che ne accompagna l'abituale, automatica ricezione televisiva costituisce una scelta coraggiosa, efficace ed estrema perché parte dal rifiuto di inserirsi nel pentolone di opere sulla provincia americana, sulla crisi dei valori borghesi, sulla recita quotidiana che caratterizza il sacro microcosmo familiare. Dopo le luccicanze glamourizzate di Velvet Goldmine, Todd Haynes si rimette in gioco con una trasgressione stilistica che tuttavia possiede il medesimo intento: quello di mettersi in risalto, di distaccarsi, di farsi notare nella diversità e nel camuffamento: le parrucche e il trucco del glam rock da una parte, la maschera sirkiana copiata e rimessa a nuovo dall'altra che, mediante la minuziosa accettazione delle regole, riesce nell'arduo compito di saper veramente trasgredire. THE END Premio per un contributo individuale di particolare rilievo a Ed Lachman e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Julianne Moore a Venezia 59 - 2002 |