Jarhead

Tiratore bianco, cuore nero
di Piero D'Ascanio

 
  Id., Usa., 2005
di Sam Mendes, con Jake Gyllenhaal, Peter Sarsgaard, Jamie Foxx, Chris Cooper


Il senso di Jarhead - molta parte di esso –- è racchiuso nella sequenza in cui ci vengono mostrati i Marines freschi d’'addestramento assistere ad una proiezione di Apocalypse Now; l’'entusiasmo sfrenato e fanciullesco che il capolavoro di Coppola scatena nella truppa non ci sembra un fatto scontato, qualcosa per cui potremmo liquidare questo passaggio del racconto come un divertito ammiccamento d’'autore; invece, anche grazie all'abilità con cui è messa in scena, la sequenza ci “mostra”con sicura efficacia tutta quella precipua carica vitalista – e già venata di morte – del plotone di giovani tiratori, effetto immediato del condizionamento subìto in fase di training.
Terzo lavoro dell’'inglese Sam Mendes,  classe 1965 e almeno un grande film alle spalle –- decidete voi se si tratti della folgorante opera prima American Beauty o del rarefatto gangster di Era mio padre - Jarhead traspone in (splendide) immagini l’'omonimo libro del Marine Anthony Swofford, basato sull’'esperienza dello stesso durante la prima Guerra del Golfo; e lo fa scadendo raramente nel già visto –- i numerosi cliché del cinema di guerra sono tra i più difficili da aggirare –- e trovando anzi più di uno spunto interessante. Fortuna nostra, Mendes mette la sordina all’'io narrante del soldato, senza tuttavia svilire la natura quasi diaristica della narrazione: il risultato è un racconto totalmente focalizzato sul protagonista, laddove la gestione del suo privilegiato punto di vista è resa con mezzi specificamente cinematografici –- soggettive, movimenti di macchina, attacchi di montaggio - senza ricorrere al surrogato letterario della voice over, relegata del tutto in secondo piano. Il quarantenne regista vince già qui la sua scommessa, e il suo bottino diventa pieno nel momento in cui riesce a trasmettere con grande efficacia il profondo senso di inadeguatezza della fanteria all’'interno di un conflitto quale è stato quello del Golfo, essenzialmente risolto da azioni aeree. Per questi - ed una serie di altri motivi, che vedremo - Jarhead ci è sembrato da subito un lavoro ispirato, nel quale Mendes torna prepotentemente alle temperature registiche del suo fortunato esordio (e qui scopriamo le carte circa le nostre preferenze sui precedenti film dell'autore).
La vicenda segue le vicissitudini del plotone di tiratori scelti di cui fa parte il protagonista, dall’'addestramento al campo di battaglia; le numerose ellissi scandiscono la narrazione, mettendo man mano a fuoco la particolare esperienza che della guerra hanno proprio loro, i cecchini. Ecco che la posizione disagevole della fanteria nel quadro del conflitto Persico si raddoppia, e i continui stalli cui deve far fronte il battaglione di Swofford rendono efficacemente la profonda “crisi d’'identità” del cecchino, perennemente di fronte al paradosso di non riuscire a sparare mai un colpo, puntualmente preceduto –- quando ve ne sarebbe finalmente l’'occasione –- da una più risolutiva sventagliata aerea.
Mendes adotta uno stile registico perfettamente conforme alla surrealtà della situazione, evitando con cura i punti di vista sopraelevati sulla scena bellica, e rimanendo invece ben piantato a terra; l’'autore è tutto dalla parte dei soldati, non si riconosce un ruolo onnisciente all’'interno del racconto: così facendo, taglia coraggiosamente le ali all'apparato filmico, e “"salda" la macchina al suolo, spesso costringendo il suo abilissimo operatore ad andare a mano, panoramicando a schiaffo e “"sporcando" l’'inquadratura.
Il fatto interessante è che una tale immediatezza di visione non priva l’'opera di un indiscutibile fascino visivo, anche in termini di composizione del quadro: complice un maestro della fotografia come Roger Deakins – e un montatore dell’'esperienza di Walter Murch -  Mendes esce dal film con la botte piena e la moglie ubriaca, avendo ottenuto tutto ciò che si prefiggeva in termini di freschezza d'approccio –- proposito legittimo: ricordiamo che egli mette in immagini quello che è praticamente un diario - ma non avendo mai sacrificato ad essa una forma che rimane assolutamente impeccabile.
Ci sembrano questi i nodi fondamentali di Jarhead, termine gergale che allude alla “"testa di barattolo" e quindi vuota - del Marine; il film ne consegue, perfettamente, come un corollario. Ecco che allora, nello straniante quadro generale, acquistano grande interesse episodi altrimenti anodini come quello della partita di football “"inventata" nel deserto, o la spassosa irrisione dei soldati ai danni della troupe televisiva, goffamente arginata dal sergente Jamie Foxx; ne siamo sicuri, di Jarhead ci rimarranno in mente soprattutto gli episodi leggeri, le trivialità della truppa, le sue sistematiche esternazioni di vitalismo esasperato: forse perché sono gli elementi che più sfuggono alla scontata drammaticità dello “war movie”, o forse perché ben rappresentano il “mood dell’'autore nei confronti dei propri personaggi.
In chiusura, non ci lasceremo sfuggire una menzione speciale per il protagonista della vicenda, il sempre più bravo Jake Gyllenhaal; per l’'irriverente cecchino Anthony Swofford non sarebbe potuta esistere una faccia migliore.