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Io sono leggenda
I am legend, Usa, 2007
di Francis Lawrence, con Will Smith, Alice Braga, Dash Mihok

La (paranoica) solitudine del normale
recensione di Emanuele Boccianti
mutanti



New York, tra qualche anno. Emma Thompson scopre la cura contro il cancro: un virus, quello del morbillo, che modificato geneticamente debella la piaga del nostro secolo. Il virus però si prende la libertà di mutare ulteriormente in una rabbia contagiosissima che attacca animali e uomini e li trasforma in para-vampiri centometristi. Pochissimi sono immuni, ancora meno sopravvivono, sperduti e disperati in un mondo deserto, agli attacchi dei mostri; Will Smith è uno di questi, forse l’ultimo rimasto, a proseguire la sua (r)esistenza solitaria in compagnia del suo cane e della sua missione, ormai forse priva di senso: trovare una cura.
Io sono leggenda è il terzo film tratto dal lavoro letterario di Matheson del ’54, ed è il primo a rispettare il titolo originale del romanzo. Il primo era stato L’ultimo uomo sulla Terra, produzione italo-americana, con Vincent Price e gli esterni ambientati all’Eur di Roma; era seguito poi nel ’71 1975: occhi bianchi sul pianeta Terra, con Charlton Heston e quei mitici (per i cinefili della mia generazione) vampiri dagli occhi, appunto, bianchi.
Nessuno dei tre film si adatta filologicamente al romanzo fino in fondo, ma paradossalmente è proprio l’ultimo, quello che adotta il titolo corretto, a compiere passi che lo distaccano sostanzialmente dal libro di Matheson, primo tra tutti quello di mutare drasticamente la figura dei vampiri in zombi. Lo scollamento con la storia originale è stato meno traumatico del dovuto: il sottoscritto, familiare con il romanzo e con tutti i film da esso tratti, se ne è reso conto solo a metà film; sicuramente questo è dovuto ad una certa abituazione alla figura dello zombi che imperversa da qualche anno ormai al cinema, e che dai tempi recenti di Boyle (28 giorni dopo) ad oggi ha perso molti dei suoi tratti definitori originari. Si potrebbe anzi, per puro divertimento, parlare di una situazione ordinatamente simmetrica per cui se oggigiorno gli zombi stanno sempre di più avvicinandosi a figure ibride con quella del vampiro, Io sono leggenda è uno dei film, magari il primo, a ridisegnare l’icona del vampiro dandogli connotati da zombi.
Perché Will Smith/Robert Neville combatte asserragliato in una città ormai giungla le orde di strani esseri bestiali, lividi e antopofagi, molto più animaleschi (privi della parola e di qualsiasi pensiero raziocinante: puria furia ferina) di qualsiasi vampiro mai visto - e men che mai di quelli del romanzo a cui si ispira. Altro che Lestat. Peraltro, non è stato un grande impegno dal punto di vista del restyling: i nuovi mostri del dottor Neville sfoggiano un make-up un po’ al di sotto della media attuale. Ad ogni modo, tutto questo muta, seppur impercettibilmente, il senso di una storia che si centrava su una bella intuizione avuta da Matheson dopo la visione del Dracula di Browning, e cioè il curioso shock culturale vissuto dal protagonista che, da individuo della specie dominante, quella degli uomini, si ritrova trasformato lui stesso in una anomalia, un unicum - la leggenda del titolo - perché la normalità è il vampiro. "Leggenda" è l’appellativo che ipoteticamente danno a Neville i vampiri, non quello che gli dà l’umanità futura, risorta. Ovviamente Francis Lawrence, il regista (seconda prova dopo Constantine), non poteva fare altrimenti nel suo film: i suoi vampiri non hanno pensieri che vadano al di là del pasto.
Certamente non è facile rendere su pellicola quello che è stato il vero valore aggiunto del romanzo mathesoniano, cioè lo stato di depressione paranoica in cui versa il protagonista, costretto all’angolo dell’estinzione da una razza che ha fatto piazza pulita del suo mondo in qualche mese. L’alcolismo, la musica a tutto volume per non sentire le grida dei cacciatori notturni, la ragione vacillante per la solitudine forzata di anni, le ferite autoinferte: sono temi che esulano dal tipico prodotto action willsmithiano, dopamina che arriva in genere appena sotto la cute. Eppure sono proprio i momenti in cui l’attore Smith si fa strada nella trama un po’ troppo - o troppo poco - action e insegue quei momenti di solitaria depressione, socializzando con i manichini, o dolendosi di non riuscire a farlo, parlando al cane, recitando a memoria i dialoghi tra Shrek e Ciuchino; questi sono i momenti che probabilmente ricorderemo, quelli che parlano di una solitudine tragica e terribile, intravista nel film nello sguardo - bellissimo - di Neville quando uccide il suo cane a mani mude, e sedimentata efficacemente sotto il titolo, nella tagline: l’ultimo uomo sulla Terra non è solo, purtroppo per lui.