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Una gigantesca esplosione illumina
il cielo da Dallas a Washington, frantumando lo shuttle Patriot in mille
pezzi che piovono giù su tutti gli Stati Uniti. Iniziano a circolare
strane voci su una strana sostanza trovata appiccicata ai rottami, qualcosa
che ha resistito al freddo estremo dello spazio e al caldo rovente del
rientro. E i primi a entrarci in contatto sono i primi a cambiare. A
Washington la psichiatra Carol Bennell, dopo aver visitato una paziente
terrorizzata dallidea che suo marito sia stato rimpiazzato da
un estraneo, si accorge della presenza di una strana sostanza organica
presente tra le caramelle di Halloween di suo figlio Oliver. Le stranezze
sembrano moltiplicarsi e le autorità parlano di una nuova forma
di influenza. Prima di rendersi conto della gravità di quanto
sta succedendo, Carol lascia che Oliver trascorra il week-end con il
padre. Ma appena lepidemia si propaga, Carol scopre che le stesse
persone incaricate di distribuire il vaccino stanno in realtà
diffondendo il virus di origine aliena che attacca il DNA umano durante
il sonno trasformando la vittima in un duplicato privo di qualsiasi
emozione. Nellarco di una notte le persone intorno a lei si trasformano
in un esercito di creature con un solo imperativo: contagiare gli altri
e assumere il controllo. Facendo di tutto per restare sveglia, Carol
intraprende un viaggio disperato in un mondo irriconoscibile, cercando
di restare viva abbastanza a lungo per ritrovare suo figlio. Ancora
un remake, ennesima conferma della miseria creativa che sta erodendo
dall'interno il sistema hollywoodiano. Terzo rifacimento da un classico
della fantascienza come lInvasione degli ultracorpi
girato da Don Siegel nel 1956, dopo Terrore dallo spazio profondo
di Philip Kaufman e Ultracorpi-L'invasione continua
di Abel Ferrara, questa ulteriore riproposizione del tema ad opera del
tedesco Olivier Hirschbiegel è indubbiamente la peggiore sia
sul piano estetico che sulle tracce del sottotesto politico, unico fil
rouge che lega fra loro quattro opere diverse. Il regista de la
Caduta e The Experiment non poteva allontanarsi
di più dalla maestria registica di Don Siegel così come
dalle atmosfere stranianti di Ferrara e da quelle cupe di Kaufman. Sicuramente
mantiene la tradizione, giocando al ribasso, del testo fantascientifico
come veicolatore di angosce collettive. E, in un certo senso, pareggia
i conti. Perchè se in Siegel la grande metafora politica esprimeva
l'ossessione dell'America degli anni Cinquanta per il pericolo di un'invasione
sovietica (ma d'altra parte si poteva leggere tutto come una riflessione
sull'alienazione prodotta dal capitalismo o sull'anaffettività
nevrotica derivante da quella sessuofobia sociale che di lì a
qualche anno sarebbe stata disintegrata dai libertarismi del decennio
successivo), in Kaufman si respirava l'aria post-vietnam e in Ferrara
tutto si trasformava in una denuncia antimilitarista, in the
Invasion la paranoia è quella dell'America post-11 settembre
che ha votato Bush. Con unevidenza reazionaria imbarazzante tanto
che il film sembra scritto da Condoleeza Rice e diretto dal Presidente
in persona. La tesi è questa: la guerra è fondata sulla
sfera sensibile dell'essere umano, sulle sue passioni, quindi la guerra
è necessariamente connaturata all'essenza dell'umano. Per
me immaginare un mondo nel quale una crisi non si traduca in nuove atrocità,
nel quale un giornale non sia pieno di guerra e violenza, significa
immaginare un mondo in cui gli esseri umani cessano di essere umani
dice un personaggio del film con il tono di saggezza da verità
ultima. Roba da idealismo vetero-novecentesco, roba da nazisti, insomma.
Di conseguenza, the Invasion mette in scena un mondo
da incubo (soprattutto per i teocons e per gli elettori della cintura
della Bibbia!): quello, vampirizzato dagli ultracorpi e dominato dell'anaffettività,
in cui Bush incontra e stringe la mano all'odiato comunista
Chavez, le truppe si ritirano senza senso dall'Iraq e dall'Afghanistan,
e la guerra cessa semplicemente di esistere... Al posto dei mitici baccelloni,
una sostanza viscida che sinsinua ovunque e rimanda alla paranoia
da attacco chimico. Nessuna ironia, nessuna ambiguità, nessuna
apertura di senso. Il significato del film è tutto qui: un volgare
manisfestino reazionario, estremo tentativo della Hollywood repubblicana
di convincere il mondo sulla giustezza della politica estera del Presidente.
Che tristezza. Mancano le tracce riflessive, le deviazioni di senso
che sostanziano tutti i grandi film di fantascienza. Manca una riflessione
sulla corporeità e manca anche quella claustrofilia-claustrofobia
che aveva caratterizzato i due lavori precedenti di Hirschbiegel. E,
certo, il tema si prestava sia alluna che allaltra. Non
si salva neanche il ritmo narrativo, per cui the Invasion non
rientra nemmeno in quella categoria dell'intrattenimento spettacolare
che aveva fatto apprezzare film come Independence Day.
Il racconto confuso e pretestuoso stanca e annoia lo spettatore, il
quale fortunatamente, crediamo, appena uscito dalla sala, ha già
dimenticato il pasticcio al quale ha assistito.
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