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"Fin qui tutto bene
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da LOdio, di Matthieu Kassovitz
Un altro Das Experiment, un altro esperimento, per
Herr Hirschbiegel, ancora una volta riuscito. Avventurarsi nel territorio
della rappresentazione cinematografica della persona di Adolf Hitler
avendo alle spalle soltanto due precedenti degni di menzione, toccare
un nervo se non scoperto ancora fortemente sensibile, calcare la nota
del realismo, dotarsi di una ricostruzione particolareggiata, minuziosa,
storicamente impeccabile, senza il filtro smussante dellaffresco
metaforico, impressionista (è invece il caso dellinteressante
Moloch di Aleksandr Sokurov): questo è stato
il tentativo del cineasta tedesco, partito anni or sono dagli allori
televisivi del Commissario Rex (sic).
Lesperimento: trovare il baricentro di una storia, della Storia,
di una nazione, del mondo intero in quegli anni, e regalargli una
figurazione cinematografica che potesse sostenere il peso di tale
responsabilità. La soluzione: dodici giorni sottoterra.
Lo zoom del narratore stringe vertiginosamente, riduce per esaltare;
trova note, suggestioni, inquietudini splendidamente minime, strette,
claustrofobiche, e poi suggerisce, più che mostrare, il contesto
globale in cui quelle minimalia potevano e dovevano trovare
il loro più alto senso e significato. Nel 1945 il cuore del
mondo era la Germania, e il cuore della Germania era Berlino, era
per lesattezza un bunker sotto il palazzo della Cancelleria,
era una piccola stanza stritolata tra le pareti di cemento con un
tavolo, un orologio a pendolo; era un uomo chiuso in una incomprensibile
solitudine che fissa un ritratto di Federico II appeso ad una parete,
come se fosse lunico interlocutore a potergli fornire le risposte
che cerca, dissipare i dubbi che lo tormentano. Un uomo che aveva,
letteralmente, tutto il suo popolo accanto. Fuori, sopra di lui, linferno,
il caos e la distruzione, la rovina; fuori, il Titanic che affonda
mentre sul ponte lorchestra ancora suona. Il perno del lavoro
di Hirschbiegel è proprio una funzionale dialettica dentro-fuori
in cui tutte le alternanze sono rispettate, tutti i contrasti esasperati.
Moto-immobilità, dramma-farsa, coscienza-incoscienza. Vuoto-pieno.
La macchina filmica, che zooma fino ad entrare nella stanza del Führer,
e poi ritmicamente stacca facendo capolino oltre la linea della superficie,
dipingendo ciò che accade al di sopra, allesterno, costruisce
un dispositivo di rappresentazione di enorme efficacia, mette a nostra
disposizione un osservatorio privilegiato il cui fuoco è dentro
il cuore stesso del dramma e della Storia. Il centro del buco nero.
Un tragico teatrino di caratteri umani si muovono e si agitano come
guitti di Macbeth tirati dai fili che fanno capo a questo
centro, che ha il cipiglio sprezzante e insieme smarrito di un enorme
Bruno Ganz, evidentemente in stato di grazia malgrado le iniziali
reticenze ad accettare la parte. E noi vediamo: vediamo un cosmo intero
che ha perso il suo baricentro, per lappunto; vediamo lo sconcerto
scandalizzato che si dipinge sul viso degli alti ufficiali del Reich,
costretti a sentire le farneticazioni di un condottiero che blatera
di panzer e messerschmitt che non esistono se non nella sua mente,
e che sono tuttavia chiamati allimmane responsabilità
di salvare tutti loro, Führer, generali, popolo.
Hirschbiegel ci regala la possibilità - e questo è di
fatto un dono da cineasta generoso - di guardare quegli avvenimenti
storici di portata così globale con una lente da entomologo,
guardarli con gli occhi dello stato maggiore del Führer, gli occhi
dei suoi generali, dei suoi attendenti, e soprattutto della sua segretaria,
mentre lui, Hitler, lentamente ma in modo inesorabile, compie la sua
tragica parabola di scollamento dalla realtà. Luomo che
doveva guidarli verso un nuovo assetto mondiale, una Germania sovrana.
Di nuovo questa dialettica di microcosmo e macrocosmo. Micro: il leader
che si ritrae di fronte alla realtà eppure non può fare
a meno di sentirla colare giù negli interstizi di quelle pareti
di cemento armato. Macro: il popolo che inizia a percepire il passo
di quel sogno vacillare, eppure punta i piedi, e piange e implora
il suo Führer di guidarlo (come fa in lacrime la sua giovane segretaria
bavarese) e aspetta da lui una parola, solo una parola, per poter
sentire rifondere dentro nuova forza, nuova illusione di grandezza
e di potenza; il popolo che punta i piedi e fa giustiziare un pugno
di vecchi colpevoli di diserzione, anche quando la sconfitta
è ormai certa. Coscienza e incoscienza; dentro-fuori. Aperto-chiuso.
Chiuso, come lo spazio del bunker, che sin dallinizio fotografia
e movimenti di camera ci mostrano come un luogo mentale, più
che geografico. Pareti stritolanti, soffitti bassi, senza impalcature
sul set, che hanno impedito luso di luci extradiegetiche. Non
cè aria, non si respira. Non è un bunker, è
una cripta.
La caduta del titolo è laffondo in quella cripta, sotto
la superficie della notte berlinese, la psiche che si rifugia nello
spazio angusto dei propri sogni e dei propri rituali di autodistruzione.
Non è un caso che tanta enfasi venga data nel testo alle liturgie
del suicidio di Hitler, da lui studiato con la massima freddezza assieme
ai suoi medici. E il suicidio diventa insieme esplicitazione concreta
e metafora del termine di questa corsa, anzi, di questa caduta. I
suicidi vengono messi in scena uno dopo laltro, dipinti nella
loro individualità, con aliena determinazione, ne contiamo
svariati. La moglie di Goebbels che stermina i suoi sei figli somministrando
loro veleno nel sonno è oltre il dramma, è una scena
di horror puro, perfetto.
Solo il finale ci sbalza fuori da quel buco nero che stava risucchiando
tutto, spettatore compreso; ma si tratta di finale costruito su una
speranza rubata con linganno dai due collaboratori,
la segretaria Traudl Junge e Peter, entusiasta ragazzo della Gioventù
Hitleriana, che possono farla franca (almeno nella finzione del cinema)
solamente con lipocrisia della disperazione, fingendosi madre
e figlio. La vera Traudl Junge, che ha il volto di una concentrata
Alexandra Maria Lara, recuperata in fondo ai titoli di coda in una
intervista recente, sembra dirci tra le righe che il finale forse
serviva per spezzare quel senso di caduta, dotarci di un paracadute,
di un respiro nuovo di zecca. Una delle rivincite, forse un privilegio,
che si arroga a volte il cinema sulla realtà che vuole rappresentare.
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Nel lontano luglio 1959, Godard esprimeva il proprio imbarazzo relativamente
a Hiroshima mon amour, denunciando una certa facilità
nel mostrare scene di orrore, perché in tal modo si
va rapidamente al di là dellestetica. Due anni
dopo Rivette, in un articolo dedicato al film Kapò,
faceva propria la stessa opinione: Ma prendete linquadratura
in cui Riva si suicida gettandosi sui reticolati elettrici; luomo
che a quel punto decide di fare una carrellata in avanti per inquadrare
il cadavere dal basso, curando di far coincidere esattamente la mano
tesa con un angolo dellinquadratura, questuomo ha diritto
soltanto al più profondo disprezzo.
Usando coscientemente o meno il format dello sceneggiato televisivo
(asettico, nitido, ben girato e tranquillizzante - forse perché
il regista viene dal piccolo schermo e da una serie cara al grande pubblico
quale il Commissario Rex), Oliver Hirschbiegel descrive
la storia di un vecchietto un po irascibile, molto malato e terribilmente
gentile con chi gli sta intorno che, invece di battere i pugni sul tavolo,
quando si infuria con i propri generali - i quali obiettivamente sembrano
un gregge di pecore al macello - manda a morte unintera popolazione
e consiglia ai propri fedeli collaboratori di seguirlo in maniera indolore
e altrettanto rapida, al fine di fuggire alle orde barbariche rappresentate
dai terribili rossi.
Bruno Ganz arriva persino a compiacersi di essere stato preso
dallambizione che tutti gli attori conoscono, ossia
quella di interpretare il ruolo, dimenticandosi
che quando si descrive lorrore è assolutamente necessario
rifarsi al magistero brechtiano, frapporre una distanza tra lattore
e il proprio ruolo, sviluppare unopposizione dialettica fra il
personaggio e il proprio gestus.
Questo film si inserisce perfettamente nella logica imperante della
revisione storica, allinterno dellorgia di documentari che
oramai mostrano la quotidianità delluomo Adolf Hitler -
vegetariano e amante degli animali, contrario al tabagismo e affettuoso
con i bambini -, fra le dichiarazioni di chi parifica il confino con
la villeggiatura e confonde il saluto fascista - tuttora reato - con
il pugno chiuso, cosicché nellequiparazione di qualsivoglia
simbolo si possano finalmente confondere i carnefici con le vittime
e le vittime con altrettanti colpevoli.
Il racconto segue la storia di diversi personaggi, molti dei quali impegnati
semplicemente a sopravvivere ai bombardamenti o coscienti del proprio
dovere e decisi ad attenervisi fino alle estreme conseguenze. I tedeschi
sono solamente un popolo-vittima, gli unici a essere considerati colpevoli
sono le onnipresenti SS, che nessuna redenzione potrà mai salvare.
Come in un solido sceneggiato - e anche le due ore e mezza di durata
suggeriscono la programmazione televisiva - seguiamo il bambino vagare
nella città in fiamme e alla fine scappare in bicicletta (omaggio
forse involontario a quel ragazzino che in Germania anno zero
non trovava alcuna salvezza tra le macerie di una nazione distrutta,
o al celebre film di De Sica); vediamo due dottori coraggiosi battersi
per la vita mentre cercano di curare i soldati straziati segando pezzi
umani; ci appassioniamo per le sorti di quella che dovrebbe essere il
punto di vista da cui osservare la vicenda, ovvero Traudl Junge, la
segretaria di Hitler, e che invece si rivela uno dei tanti personaggi
per i quali il pubblico non può astenersi dal tifare, mentre
i continui bombardamenti - sottolineati da scelte stilistiche quali
un volume particolarmente alto e loscillazione della macchina
da presa - forzano lo spettatore a prendere le parti dei tedeschi-vittime,
decontestualizzando la presa di Berlino.
Il film avrebbe potuto ripercorrere quegli ultimi dodici giorni di guerra
attraverso gli occhi del ragazzino, a stretto contatto con la popolazione
civile, oppure seguire la caduta del velo di indifferenza e ignoranza
che aveva coperto gli occhi di Traudl, provocando un effetto implosivo
e lacerante: dalla gloria del Reich, alla prigionia istericamente allegra
del bunker, alla coscienza della propria colpa, personale e collettiva.
Il film sceglie invece di usare tutti gli strumenti retorici che possono
suscitare commozione affinché il pubblico si identifichi con
il carnefice e il carnefice sembri uno di noi, tra Il
pianista e Traudl Junge non pare esservi differenza. I titoli di
coda, che rammentano aridamente le cifre della guerra e del genocidio
sembrano dovute, così come la dichiarazione finale di Traudl
Junge: didascalie che spesso gli spettatori nemmeno leggono a risarcimento
di due ore e mezzo in cui il nostro cervello ha introiettato liconografia
della morte dei piccoli Goebbels con i piedini nudi e il volto coperto
dal lenzuolo, dei cadaveri di Hitler ed Eva Braun che giacciono in una
buca come ebrei dei campi di sterminio e come loro sono bruciati, di
un povero vecchio a cui trema una mano, mangia avidamente il proprio
ultimo pasto e si accomiata, ringraziando la cuoca.
Questuomo ha diritto soltanto al più profondo
disprezzo.
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