Hollywood Ending
Woody neverending
di Luca Perotti

 
  Hollywood Ending, USA 2002
di Woody Allen, con Woody Allen, George Hamilton, Téa Leoni, Debra Messing, Mark Rydell, Tiffani Thiessen, Treat Williams

Ogni giudizio su un nuovo film di Woody Allen sembra non poter più prescindere da un riferimento obbligato, che non fa altro che avvalorare l'importanza forse ancora non totalmente compresa di quella decostruzione aggressiva che fu Harry a pezzi, le cui schegge esplose continuano in un modo o nell'altro ad incunearsi nello sguardo attuale del regista.
Come ogni buon nevrotico che si rispetti, Allen non poteva considerare chiuso il discorso su se stesso e sul rapporto tra se stesso e il personaggio con un solo film, sebbene così volutamente squilibrato, genuino, accorato. Il nevrotico ritorna sempre sui suoi ragionamenti, li risfida, ne rifiuta gli esiti perché ciò equivarrebbe ad uccidere per sempre una parte di sé viva e scalciante.
Hollywood Ending è una riproposizione più dolce e nostalgica della riflessione sul cinema di Allen fatta da Allen; Ë come un coccolarsi dopo la masturbazione, parafrasando una delle battute del film.
Woody Allen è uno dei pochi che può dichiarare senza essere smentito di essere un mestierante; il suo bisogno estremo di scrivere e dirigere non accenna a diminuire; assomiglia ad una corsa affannosa alla ricerca di un obiettivo che poi non è altro che quello di sfiorare il capolavoro: non farlo, bensì sfiorarlo perché giungere a compimento di un tale progetto di vita significherebbe morire. Per cui Allen finge di non aver girato Manhattan o Zelig, ma in realtà non smette di ricordarselo e ricordarcelo ad ogni nuova fatica. Come se cercasse una rassicurazione in virtù del suo più grande capolavoro cioè l'essere riuscito ad instaurare con il suo pubblico un regime di familiarità sommesso ma palpitante; una confidenza che è fonte di coraggio ma anche di timore che si combinano a formare una specie di scudo dietro il quale arrossire senza vergognarsi se si accorge che a volte sta raschiando il fondo del barile.
Ma una tale protezione finisce anche per liberarne le magiche intuizioni, ne corrobora l'ironia, gli dona linfa vitale per affermare la sua idea sul cinema.
Un'idea che, a vedere Hollywood Ending, sembra voler catalizzarsi attorno all'essenza della storia, pura nuda e cruda, come riferimento principale del cinema, come unico elemento imprescindibile.
La cornice metacinematografica di Hollywood Ending, definita e curata con sarcasmo si ammollisce di fronte alla storia dentro la storia: quella di un cieco che fa finta di non esserlo ma che ha bisogno di un appoggio esterno, che sogna la riconciliazione con la moglie e il perdono del figlio. Che si vena di inganno e di paura, di malinconia e nevrosi. Una fabula rimpinzata di gag, raccontata in un equilibrato andirivieni tra il fuori (la struttura cinema: spigolosa, ingombrante) e il dentro ( la vitalità, l'anima del personaggio scritto sulla carta).
Lo sguardo del regista si annulla; il direttore della fotografia parla una lingua incomprensibile; lo scenografo si autoelimina dal progetto per le sue pretese di ricostruire ex-novo Times Square e Harlem; gli attori sono pessimi e raccomandati; i produttori rimangono all'oscuro di tutto. E il film su New York è un impalpabile contenitore trasparente che non si vede perché, a differenza della storia interna, non ha impulso vitale: è un progetto freddo, contaminato in partenza da troppi fattori esterni, da troppe menti pensanti, da strategie di marketing e scadenze economiche.
Allen lo costruisce e poi lo scaraventa giù, come il regista-protagonista che, cieco e sullo sfondo, cade dall'impalcatura, perché tassello inutile di un disegno - il fare un film- che, cecità ansiogena a parte, veramente ne intende inibire lo sguardo.
Hollywood Ending è anche la presa di coscienza, meno amara rispetto ad Harry a pezzi, che un azzeramento del personaggio Allen rimane improponibile, sia in qualità di regista sia in qualitàdi attore.
Nemmeno oscurando il suo sguardo, neanche riorganizzandosi secondo nuove coordinate per scrutare nuovi percorsi (come fa nella stanza d'albergo quando, cieco, cerca di orientarsi tra poltrone e divani causando disastri) riuscirebbe ad approdare in un anfratto cinematografico "non-Allenabile".
Si tratta di una splendida trappola. Si tratta dell'individuazione del punto fondamentale e quindi si presta ad essere subito smentito, temporaneamente, da un progetto lontano mille miglia dal suo mondo, come fu Interiors, bergmaniano autogrill tra Io e Annie e Manhattan o per certi versi Accordi e disaccordi.
Si tratta di una rivalutazione a posteriori di La maledizione dello scorpione di Giada, opera di riscrittura neoclassica; si tratta di un ghigno sornione rivolto, ovviamente a Hollywood, alla Dreamworks, mastodontiche strutture che garantiscono economicamente, ma che Allen ostinatamente continua a considerare cornici dell' impulso vitale e nevrotico che porta il suo nome e che trova rifugio sicuro nell'inchiostro di una sceneggiatura.