Harry Potter e il prigioniero di Azkaban
Piccoli maghi crescono
di Adriano Ercolani

 
  Harry Potter and the prisoner from Azkaban, Usa, 2004
di Alfonso Cuaron, con Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson, Gary Oldman, David Thewlis, Timothy Spall.


Dopo i primi due episodi diretti dall’americanissimo Chris Columbus, che sembra aver abbandonato la saga stanco di rimanere confinato in terra inglese, la regia della terza puntata delle avventure dell’ormai leggendario baby-mago è passata al messicano Alfonso Cuaron, reduce dal successo inaspettato del cult giovanilistico-esistenziale Y tu mama tambien. Il cambio di registro si nota fin dalle prime scene, eccome: Columbus, dopo l’accettabile riuscita di Harry Potter e la pietra filosofale, aveva completamente smarrito coerenza estetica e presa narrativa con il secondo episodio, sconclusionato dal punto di vista strettamente narrativo ed insicuro sotto quello estetico, inutilmente più tetro. Nel Prigioniero di Azkaban Cuaron prosegue il processo di crescita fisica e psicologica del giovane protagonista, riuscendo ad innestare all’interno della storia alcuni temi a lui molto cari, e rintracciabli soprattutto nell’opera precedente: lo spaesamento del passaggio verso l’età adolescenziale, la trasformazione ad uno stato “altro” – molti personaggi ‘subiscono’ la propria natura, vedi anche David Thewlis - le inquietudini che ne conseguono, l’istinto (visto come anima più oscura ma anche più propria dell’essere umano) che prende il sopravvento sulla ragione. Già nella prima scena un Harry ormai cresciuto non si sottomette passivamente alle angherie dei parenti terribili, ma reagisce rabbioso e vendicativo, più conscio delle proprie capacità ed ormai indirizzato verso una piena presa di coscienza del proprio essere.
Harry Potter e il prigioniero di Azkaban è probabilmente il film dei tre che contiene una maggiore quantità di sottotesti, di discorsi che si propagano sottili ma assolutamente presenti sotto la pelle del film, la cui resa estetica è come al solito preziosa: oscuro, malinconico, velato di una patina di tristezza raggelata, il lungometraggio ha poi il proprio punto di forza nella bella sceneggiatura di Steve Kloves, che invece di ‘gridare’ esplicitamente la psicologia dei personaggi ne suggerisce soltanto le numerose sfaccettature – ed in questo senso il migliore è forse una Ermione Granger silenziosa, concentrata, fremente nello sguardo. Non avendo letto il romanzo della Rowling, non sappiamo poi se l’idea della storia che ad un certo punto si riavvolge su se stessa è già contenuta nel cartaceo oppure è frutto della mente di Kloves: fatto sta che la struttura del film funziona pienamente, è interessante da seguire e divertente negli esiti finali. Dopo gli errori e le incongruenze de La camera dei segreti era difficile pensare che la saga di Potter potesse trovare un così deciso ed interessante cambiamento di rotta: merito dunque a Cuaron nell’aver rivitalizzato un personaggio che sbandava pericolosamente verso il noioso, ed aver allo stesso tempo inserito in un blockbuster le idee guida del proprio cinema.