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Id., Usa, 2006 diTakashi Shimizu, conTakako Fuji, Amber Tamblyn, Edison Chen, Arielle Kebbel, Jennifer Beals, Sarah Michelle Gellar Sadako sta a Ringu come Kayako sta a Ju-On e ai loro corrispettivi americani The Ring e The Grudge. La semplice equazione sembra ormai essere la formula vincente per il rilancio del cinema made in Japan che, dopo la stagione degli autori e quella dei Manga, invade le sale cinematografiche occidentali con rifacimenti e sequel dell’horror. Il primo ad accorgersene, nel 1997, è Taka Ichise - presente anche in The Grudge 2 - che arriva al successo, a livello internazionale, grazie alla produzione dell’eccellente Ringu, diretto da Hideo Nakata, che oggi potremmo definire il capostipite del genere. Gli elementi che costituiscono la struttura fondamentale di questi prodotti oramai seriali sono pochi, ma consolidati. Innanzi tutto, la scelta di puntare sul rancore e la sete di vendetta di un personaggio femminile che, nella saga di Ringu è Sadako, mentre in quella di Ju-On è Kayako. Entrambe giovani donne, iconograficamente molto simili: pelle diafana, lunghi capelli neri lisci, grandi occhi, abiti bianchi, perché il bianco è il colore della morte in Oriente. Inoltre, in entrambe, i movimenti sono meccanici, simili a quelli di una marionetta a cui sia stato spezzato un filo. Le riprese tendono a inquadrare bordi di abito o dettagli per aumentare l’ansia dello spettatore di fronte all’ignoto e, grazie a questo accorgimento, il regista crea uno stato di tensione continua che si allenta solamente quando Kayako è inquadrata a figura intera e, oramai rivelata al pubblico, smette di far paura e comincia ad annoiare. Un ulteriore elemento che accomuna le due saghe, ma che destabilizza in Ringu, mentre rimanda alla catarsi del teatro greco - con il finale già noto al pubblico - in Ju-On, è la trattazione del tempo. In Ringu lo sfasamento prodotto dai continui ritorni - dovuti al sovrapporsi di sogno-realtà - danno una sensazione di instabilità che accentua lo stato di tensione vissuto dallo spettatore. Al contrario, lo stesso meccanismo, in questa pellicola - così come nell’intera serie - si compone di una scena iniziale, ad alto livello emotivo, che trova la propria spiegazione quasi al termine della pellicola, provocando un senso di aspettativa, unito però alla consapevolezza rassicurante di sapere come andrà a finire. Un ulteriore fattore di interesse che avvicina le due saghe è la scelta, soprattutto nelle versioni giapponesi, di far intuire piuttosto che mostrare, privilegiando la suspense di hitchcockiana memoria, allo splatter triviale all’americana, e il gioco regge - soprattutto finché la protagonista è inquadrata attraverso una serie di dettagli, immagini sfocate e primi piani. Inoltre, a ogni versione giapponese fa subito seguito quella statunitense, con remake che purtroppo annacquano la visione originale, molto più terrificante, soprattutto se si confrontano le pellicole di Ringu e The Ring, forse perché è ancora difficile vendere negli Usa un prodotto in cui è il male il protagonista assoluto, piuttosto che coloro che cercano di sconfiggerlo, e qui si ha un ulteriore elemento comune, ovvero i rappresentanti del bene che, attraverso un’indagine, cercano di capire le ragioni del male per esorcizzarlo. Terminati i confronti, si può aggiungere che in questa pellicola, in particolare, Takashi Shimizu crea una serie di colpi di scena in sequenza che, grazie alla scelta degli angoli di ripresa e alla velocità del montaggio, impressionano lo spettatore per almeno la prima mezz’ora, ossia finché lo spettatore stesso non accetta di stare al gioco e di godersi la scomparsa, a uno a uno, degli interpreti, e proprio in questa ripetitività - senza soluzione di continuità - sta la debolezza del film. La scelta di non sciogliere l’enigma - liberando finalmente Kayako da quella che sembra la ruota delle incarnazioni - sembra un finale studiato per rendere possibile il sequel. Perché una delle protagoniste debba rivivere l’esperienza di Kayako appare pretestuoso, mentre l’ulteriore sfasamento temporale, posticcio. Mi sia lecito, dato il genere, rimanere vaga con i termini per quanto riguarda il finale, certa che quando lo spettatore andrà a vedere il film, capirà i passaggi che forse il mio linguaggio volutamente lascia oscuri. Nel complesso, una pellicola per amanti dell’horror, con scenografie e un’illuminazione molto coerenti con lo stile registico. Ma Ringu è lontano, molto lontano… |