|
||||||||||||||||||
Runaway jury,
Usa, 2003 di Gary Fleder, con John Cusack, Gene Hackman, Dustin Hoffman, Rachel Weisz Gary Fleder è un solido tessitore di thriller (Cose da fare a Denver quando sei morto, Il collezionista, Impostor, Don't say a word) con uno sguardo denso e personale che dona un tocco di originalità ad ogni sua regia. A partire da una concezione narrativa postmoderna - quanto può esserla l'idea di una guerra fra diversi gruppi di potere che tentano di corrompere e modellare una giuria per piegare a proprio favore un processo -, Fleder firma un courtroom-thriller (tratto dal romanzo di John Grisham) che comincia come un'operazione di routine, con l'aggravante di una certa inverosimiglianza in alcuni dettagli. Ad esempio la presentazione, dagli spinti caratteri visivi fin troppo "cool" tanto cari ai bruckaimeriani di ogni tempo, della tecnologia di spionaggio della squadra cattivo Fitch (Hackman), stride con le parallele aspirazioni di realismo di un racconto che fin dall'inizio si situa nettamente nel solco del film di denuncia sociale. Ma mano a mano che il processo contro una lobby americana delle armi da parte della moglie di una vittima innocente va avanti, il film mostra polso sicuro e grande padronanza del ritmo nell'intrecciare le trame di biechi manipolatori (Hackman), avvocati della difesa (Hoffman) e misteriosi doppiogiochisti (Cusack). I cui rispettivi piani di corruzione, trionfo lineare della giustizia e vendetta privata sublimata nella dimostrazione della fondamentale bontà del sistema giudiziario, sono un affresco complesso e solido delle contraddizioni della cultura americana, fino all'ultimo mai dato per scontato e, anche se il tutto si presterebbe, mai celebrato con sbaffi patriottici o indigeste alzate di orgoglio nazionalistico. Il racconto cattura lo spettatore senza pause e la tesi sociale della possibilità (e non dell' "infinite justice" tout court) della giustizia, per quanto ormai difficilmente contrabbandabile in un mondo in cui il potere non ha bisogno neanche più di mascherare la sua prepotenza, risuona efficacemente, con un afflato semplice e fondamentalmente ottimista. In molti tentano di "rubare" una giuria di persone semplici, ma quello che risulta efficace, alla fine, non è l'arditezza del complotto, la paranoica e maniacale attuazione della corruzione o della manipolazione, quanto - anche solo per una volta - l'essenza del confronto fra esseri umani e della conseguente, superiore riflessione che tale confronto può generare. Un gruppo di persone che approda ad un semplice e autonomo giudizio su una realtà - anche se solo parzialmente afferrabile - nonostante le molteplici pressioni e contraddizioni. Esattamente la speranza incrollabile che nutre l'avvocato Rohr, fino a spingerlo a rivelare candidamente e testardamente questa sua posizione al cinico Fitch, in una scena di confronto attoriale Hoffman-Hackman (amici da lungo tempo ma mai fino ad oggi insieme in un film) magari sotto certi aspetti poco credibile ma comunque intensa e necessaria per la puntualizzazione emotiva degli intenti del film. |