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Id., Usa, 2001 di Gary Fleder, con Michael Douglas, Brittany Murphy, Sean Bean, Famke Janssen, Jennifer Esposito, Oliver Platt Don't say a word è quello che gli americani chiamano un "fall thriller", un "thriller d'autunno", che puntualmente si affaccia sugli schermi in questa stagione, secondo i dettami di un mercato all'interno del quale le major vagliano con precisione inverosimile le mosse produttive e distributive. E' la regola del prodotto di genere dal budget "contenuto" (50 milioni di dollari, solo due in più dell'apparentemente molto meno impegnativo, dal punto di vista produttivo, Panic Room) che intrattiene l'infreddolito spettatore americano. Nel caso di questo film di Gary Fleder, tratto dal romanzo omonimo, il prodotto medio di genere mostra tutta la sua grinta, e si produce in un teso racconto dalle molteplici storyline sempre perfettamente equilibrate, anche quando appena schizzate o poco rifinite. Don't say a word mette a punto con perfetto rigore e fluidità i luoghi comuni del "ransom thriller", il film di rapimento con riscatto: il padre ricattato in lotta con la paranoia, che non può chiamare la polizia ed è costretto solo a basarsi sulla sua abilità per rintracciare la figlia in pericolo, il rapitore spietato e monodimensionale che ha messo in piedi una piccola ma efficente organizzazione onniscente, il poliziotto (in questo caso una donna) che intuisce il crimine "sotterraneo" e persegue testardamente per la sua pista. In più, la figura di un secondo innocente, la ragazza con problemi mentali che è la chiave del meccanismo, figura che risulta insieme Mcguffin hitchcockiano e personaggio tridimensionale. Su di lei si attesta l'attenzione insieme professionale ed emotiva del protagonista, che ne deve svelare i traumi per poter salvare la figlia. Ogni elemento di questa molteplicità di trame, che facilmente potrebbe sbilanciarsi fuori controllo, è seguito con attenzione e raccontato con necessità, procedimento che regala credibilità all'intera vicenda anche se spesso il film non vuole e non ha il tempo di rendere pofondità ad ogni cosa, impegnato nel raccontare l'azione. E' anzi proprio la funzionalità stereotipa di molti elementi che consente alla misurata e vigorosa messa in scena di Gary Fleder di catturare a pieno lo spettatore, coinvolgendo meglio di altri prototipi recenti come il meno funzionante Nella morsa del ragno o del più ambizioso e sopra le righe Codice Swordfish. Nell'ultima parte il film si permette anche di virare decisamente in atmosfere cimiteriali da horror gotico, pur mantenedo il suo ritmo e la sua personalità, dimostrando la flessibilità narrativa di una formula produttiva solidissima che riesce a giocare sui canoni emotivi del genere uscendone vincente. La struttura forte del racconto e la semplice ma precisa caratterizzazione dei personaggi sono il motore del film, la cui narrazione quasi priva di particolari od originali colpi di scena si sa rendere interessante con le navigate armi di una affabulazione fatta di ritmi serrati ed emozioni primarie. Don't say a word fa così il punto sulle possibilità del thriller americano di produzione media restituendocene un'immagine efficace e divertente. |