False verità

L’immagine vuota
di Piero D’Ascanio

 
  Where the Truth Lies, Canada / GB / Usa, 2005
di Atom Egoyan, con Kevin Bacon, Colin Firth, Alison Lohman, Rachel Blanchard


Atom Egoyan è autore di indubbio talento. Iniziammo a sospettarlo più di dieci anni fa, epoca in cui in Europa si cominciò a conoscere l’opera di questo giovane canadese di origine armena, attivo in patria già dalla metà degli anni Ottanta. Il film in questione, affascinante e misterioso, era quell’Exotica di cui si parlò molto in occasione del Premio della Critica vinto a Cannes. Tre anni dopo – era il 1997 – il regista licenziava quello che a tutt’oggi sembra essere il suo capolavoro, il Dolce domani, asciutto e doloroso racconto di una tragedia basato su un romanzo di Russell Banks. Tali opere – includiamo anche il Viaggio di Felicia (1999) – sono più che sufficienti a delineare il ritratto di un cineasta raffinatissimo, abile cesellatore di psicologie spesso tortuose (si pensi proprio all’inquietante Bob Hoskins del “viaggio”). Ora, archiviata anche la parentesi storica dedicata al suo popolo d’origine - l’interessante Ararat, 2002 – il regista torna ai toni neri cui era sembrato particolarmente vocato, complice quel suo stile sempre elegante, preciso, attento al dettaglio. È quindi particolarmente forte la delusione nel trovarci di fronte al lavoro più “alimentare” del raffinato Egoyan: False verità, sotto un’apparente patina trasgressiva, denuncia soprattutto un’anima fastidiosamente furbetta; puntando sul facile “acchiappo”, il cineasta canadese cade proprio dove credevamo non avrebbe mai fatto, lui che – nei momenti meno felici – eccedeva piuttosto in forsennato intellettualismo.
La vicenda – tratta dall’ omonimo romanzo dell’esordiente Rupert Holmes – è ambientata in America tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, e fa perno sulla misteriosa morte di una giovane “entraineuse” nella suite di due star dello “showbiz” hollywoodiano, Vince Collins e Lenny Morris.
Una giornalista, tra presente e passato, cerca di far luce sul giallo, rimanendo coinvolta in prima persona negli “affari sporchi” del mondo dello spettacolo statunitense.
Siamo chiaramente dalle parti del melò – noir d’epoca, impreziosito – sulla carta – dalla suggestiva ambientazione nel decennio d’oro della televisione americana; ad arricchire il piatto, un asso come Kevin Bacon nella parte di uno dei due showmen – l’altro, ahinoi, è Colin Firth – figura potenzialmente affascinante ed ambigua, nella sua discrasia tra splendente dimensione pubblica e torbide abitudini private. Purtroppo, Egoyan “buca” completamente il film: ingarbuglia eccessivamente la sceneggiatura, compie avventurose scelte di cast – clamorosamente inefficace, oltre a Firth, la giornalista di Alison Lohman – soprattutto pecca di fastidioso calligrafismo nella messa in scena. Va da sé che quella riguardante l’ambito registico sia la caduta più dolorosa: l’autore, forte della valida collaborazione di un “virtuoso” come Paul Sarossy, sovraccarica l’immagine in modo forsennato, tradendo un grado di costruzione che appare da subito fine a se stesso; del resto, non sarebbe sembrato così evidente se Egoyan avesse messo la sordina all’uso della voice over, stilema noir qui particolarmente privo di senso: dov’è l’utilità nel raccontare ciò che le immagini già urlano? Da questo punto di vista fu innovativa la lezione del Lynch di Mulholland Drive, vera pietra angolare del nero contemporaneo, opera particolarmente audace nel delegare all’immagine un carico semantico precipuo, che non ha – e non vuole avere - bisogno di spiegazioni. E sì che la pellicola del Nostro ammicca consapevolmente all’universo lynchano; ma lo fa negli aspetti più deteriori, rifacendosi alla stessa tavolozza cromatica, aggrappandosi ad un erotismo pruriginoso e alla fine innocuo, concedendosi inutili vertigini sensoriali – le scene “sotto effetto” – e temporali.
Ci può stare che un autore commetta un passo falso; Egoyan lo è, e tra i più personali. Siamo sicuri che saprà rifarsi già alla prossima occasione.