Fahrenheit 9/11
La mente e lo stomaco
di Carlo Vargas

 
  id, Usa 2004
di Michael Moore


Il caso di Michael Moore non sembra affatto un’eccezione, ma appartiene piuttosto a una regola condivisa da due mondi apparentemente distanti, quello della critica cinematografica e quello della politica: la regola del sospetto verso chi ha troppo successo. A leggere, almeno in Italia, giornali e riviste di varia natura, dal trionfo di Bowling a Columbine all’attesa di Fahrenheit 9/11, passando per l’uscita in libreria di “Stupid White Men”, per il regista di Flint era un continuo inneggiare alla sua forza corrosiva e alla sua capacità di mettere l’idiozia americana con le spalle al muro, con la conseguenza di farne un’icona della sinistra globale. Mentre si aspettava nelle sale un film nientemeno che campione d’incassi e vincitore di una rovente palma d’oro, cominciarono a fioccare, sempre più pesanti, i dissensi: sul fatto in sé, niente da obiettare, ci mancherebbe. Quello che spiace, come spesso accade nei casi mediatici in crescita esponenziale, è che ad occuparsene siano anche persone che non hanno niente a che vedere con il soggetto in questione (il cinema), in una parata progressista che va da Massimo Cacciari sulle colonne di Repubblica a Luca Sofri sulle pagine di Vanity Fair. Il verdetto per Moore è unanime: faziosità/propaganda. C’è un fondo di verità in questa accusa, ma richiede un approccio probabilmente diverso da quello che spinge Sofri a parlare addirittura di Michael Moore come del “Gabibbo degli americani” (anche perché, per inciso, un attacco del genere a Berlusconi da parte di Striscia la notizia non ce lo ricordiamo proprio…).
Il primo passo, all’apparenza banale, ma che in Italia comporta evidentemente uno sforzo considerevole, è cercare di comprendere l’operazione di un regista da un punto di vista strettamente cinematografico. Michael Moore, già dai tempi di Roger & Me, ha elaborato infatti una formula per rendere appetibile al grande pubblico il documentario d’inchiesta e questa formula comporta, oltre ovviamente un uso massiccio e salutare di ironia, alcuni accorgimenti di messa in scena presi in prestito dal cinema di finzione. Consultando ad esempio qualsiasi manuale di sceneggiatura, scopriremo che un film a narrazione forte, con lo scopo di un coinvolgimento emotivo più ampio possibile degli spettatori, prevede la personificazione fisica in un personaggio del complesso delle forze antagoniste, contro le quali lotta l’eroe di turno: Moore, che gioca spesso a mettersi in scena di persona, combatte quindi il suo corpo a corpo con Roger Smith della General Motors, con Charlton Heston della Nra e, infine, con George W. Bush. Questo espediente non impedisce a un regista intelligente di usarlo semplicemente come leva per articolare discorsi più ampi, ed ecco allora il mondo dei disoccupati in Roger & Me, ecco allora il puntuale e impietoso ritratto della cultura della paura e del consumo in Bowling a Columbine. Un altro mezzo per raggiungere il pubblico più vasto è affidarsi a un certo patetismo, a volte addirittura di marca televisiva: la foto della bambina uccisa accidentalmente da un arma da fuoco, deposta davanti la casa di Heston, ha fatto mugugnare parecchi critici, ma lo stesso potrebbe dirsi della madre di un soldato ucciso che versa lacrime sotto la Casa Bianca in Fahrenheit 9/11. Esiste poi una complessa ed efficace retorica per amplificare l’effetto di alcune immagini: sempre in Fahrenheit 9/11, ad esempio, le serafiche scene di vita quotidiana in Iraq prima dell’invasione americana non vogliono evidentemente presentare la dittatura di Saddam Hussein come un paradiso perduto, quanto piuttosto moltiplicare per contraccolpo l’efficacia delle immagini di guerra, secondo una strategia che mira allo stomaco più che alla testa dello spettatore.
È questa, in sostanza, la chiave del problema, e fermiamoci allora su Fahrenheit 9/11: più che negli altri film di Michael Moore, dove questa miscela tra artificio e documentazione appariva infine equilibrata, qui vi è un’evidente sproporzione che asseconderebbe quella che molti commentatori inorriditi hanno identificato in una morale da “il fine giustifica i mezzi”. Il fine sacrosanto di smascherare Bush varrebbe insomma le continue forzature ideologiche e la scarsa dose di quell’appeal speculativo tipico dell’intellighenzia più burbera? È vero che Moore ha rinunciato in Fahrenheit 9/11 a parte della sua onestà intellettuale (ma assolutamente non abbastanza per mettersi a livello della destra, americana e non, come molte persone vorrebbero credere), è vero che ha voluto sferrare un attacco con un preciso scopo elettorale, ma tutto ciò fa parte di un’operazione a carte scoperte, frutto di una volontà precisa e dichiarata. La volontà, visto la gravità della situazione mondiale, è quella appunto di colpire allo stomaco e farlo per raggiungere più spettatori possibili, molti dei quali sarebbero impenetrabili a qualsiasi tipo di discorso solo leggermente più pacato e sofisticato. Il giudizio sul film, considerando ovviamente che il dibattito si rivela interno alla sola sinistra, non può dunque prescindere dalle opinioni politiche di ognuno, o meglio dal modo in cui ognuno crede sia legittimo veicolarle: queste opinioni, tuttavia, non dovrebbero fare a meno della consapevolezza che gran parte della persone (sia detto senza spocchia, bensì con infinita tristezza) non legge un libro da anni, non sfoglia neanche i quotidiani e se lo fa sicuramente non legge i forbiti editoriali dei politologi, mentre l’unico contatto con gli avvenimenti del mondo le arriva tramite schegge confuse di programmi televisivi. Se qualcuno si lancia nel tentativo donchisciottesco di raggiungere anche queste persone per una causa giusta, anche solo come testa d’ariete per stimolarne una futura, maggiore presa di coscienza, deve necessariamente scontare il successo con la gogna del sospetto perenne?