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Ten, Iran / Francia,
2002 di Abbas Kiarostami, con Mania Akbari, Amin Maher Dove sta andando Kiarostami? Anche se la domanda è banale, la risposta risulta tuttaltro che facile, visto che litinerario del regista iraniano diventa sempre più complesso e sfumato, difficile da decifrare, forse poco risolto anche se proprio per questo affascinante per chi voglia seguirne i passi. Solitamente chi conosce bene levoluzione autoriale di Kiarostami, sa che il suo cinema oscilla quasi sempre tra due estremi ben distinti: una tendenza realistica, anzi neorealistica, con espliciti riferimenti a Rossellini e alla fortissima tensione trascendente che promana da ogni sua inquadratura. Dall altra, parallela ma non contrapposta alla prima tendenza una volontà di astrazione lirica nell immagine, una contemplazione estatica della natura che lo porta a sfiorare il pittoricismo. Fondo comune ad ambedue le modalità espressive la volontà di dissolvere il diaframma che separa lo spettatore(e la mdp) dalla realtà osservata. Quindi sia nel naturalismo minuto, rosselliniano appunto, di Close up o Sotto gli ulivi, sia nel lirismo dei campi lunghi de Il sapore della ciliegia o de Il vento ci porterà via, è presente il desiderio, anzi lossessione di Kiarostami, di trasformare la partecipazione passiva cui è costretto lo spettatore al cinema, in aperta compenetrazione, comunione con quanto visto. Non è la semplice impressione che deriva dalluso di barocchismi visivi quanto piuttosto un rapporto fusionale, di altissima suggestione spirituale tra soggetto riguardante e oggetto guardato. In Dieci, apparentemente il suo esperimento naturalistico più radicale si tenta la sintesi: adesione alla vita e ai dialoghi dei personaggi e compassione, pietas tanto forte quanto mimetizzata. Come molti dei migliori cineasti contemporanei (Wong Kar wai, Jarmusch, Kitano) Kiarostami cerca di trasformare il suo cinema in puro sguardo, piacere scopico della realtà o se preferite splendore del vero. Lostacolo maggiore al raggiungimento di questo sentimento panico dell immagine è diventato il set, la messa in scena, che via via si è fatta sempre più rarefatta, naturalistica, evanescente, senza però rendersi invisibile, anzi riuscendo esaltata dalla ricerca stilistica sul piano delle inquadrature(di qui le accuse ingiustificate di essere diventato un arazzista del regime teocratico). Dieci, lo ripetiamo, in apparenza dovrebbe essere l esperimento più radicale in questo senso, nulla è concesso allastrazione paesaggistica, al lirismo, ai tempi dilatati ed elegiaci(e a volte stucchevoli) de Il vento ci porterà via, ma in realtà tradisce la stessa contraddizione interna agli ultimi esiti del cineasta di Teheran. Dietro lapparente disamina sulla condizione della donna nell Iran odierno sono immediatamente identificabili i due argomenti portanti su cui Kiarostami innesta il suo discorso teorico-filosofico: il viaggio, che poi quasi sempre è un malinconico vagabondaggio attraverso unesistenza la cui essenza rimane misteriosa e sconosciuta, e la figura del regista, solitamente un demiurgo frustrato che tramite locchio vorrebbe dominare, possedere il mondo che lo circonda, ma che in realtà si rende capace soltanto di guardare sé stesso, di riflettere narcisisticamente il proprio scacco. In questo caso il delirio demiurgico colpisce la protagonista Mania Akbari, donna che tenta di realizzarsi e sfruttare le nuove opportunità concesse alle donne del suo paese, ma il cui itinerario si risolve in un continuo vagare in macchina per le strade di Teheran. Chiusa nel suo guscio di ferro come una tartaruga nel suo carapace, pur essendo fotografa e pittrice è incapace di vedere e di essere veramente libera dai pregiudizi e dallincombente sguardo maschilista che ancora impregna di sé una società semifeudale appena entrata nella modernità. Come lei, rimangono prigioniere anche le altre figure femminili coprotagoniste dei dieci spezzoni di pellicola da cui è costituito il film. Mania, proprio per la pulsione aggressiva implicita nel suo sguardo non sa capirle e aiutarle, così come non riesce a stabilire un reale contatto umano con il figlio Amin, lunico maschio del film, non a caso un bambino evidentemente nevrotico e sofferente. Dietro lapparente proclama didattico sulla necessità della donna di emanciparsi e di realizzarsi nella società, ritorna lafasia quasi beckettiana dei personaggi in dialoghi serrati nei toni, ma i cui contenuti assumono la qualità di un vaniloquio prolungato. Per due volte viene negata la dfifferenza in Dieci: allIslam come massiccio culturale autonomo, visto chegli argomenti di conversazione potrebbero essere tranquillamente registrati nel traffico del quartiere Prati, alle donne come genere, visto che lindipendenza, faticosamente conquistata le rende tragicamente simili agli uomini nella mentalità. Ora, per rendere il suo discorso, pur così acuto nelle intuizioni, realmente efficace Kiarostami avrebbe bisogno di una regia invisibile, capace di proiettare lo spettatore nel cruscotto della macchina di Mania, nel suo girare a vuoto, a Teheran come negli affetti. In realtà il pedinamento zavattiniano, che dissolva la regia nella realtà non riesce e proprio per la scelta di ascetismo linguistico operata dal cineasta persiano. Quanto più Kiarostami prova ad eliminare la messa in scena, o almeno a renderla intangibile, in nome di un naturalismo estremo, tanto più lambiente claustrofobico dellautomobile viene esaltato nella sua qualità di location, di ambiente messo in quadro. Eliminare il set non vuole dire eliminare la forma, lo stile. Non che il nostro ignori questa verità, resta il fatto che lo stesso rigore spartano che contraddistingue Dieci (due camere digitali fissate su un cruscotto, linguaggio ridotto a qualche sporadico campo-controcampo), si denunci subito non come realtà guardata senza filtri bensì come raffinatissimo artificio stilistico. Pregio fondamentale e che da alla narrazione dei momenti fortissimi (lincontro con la prostituta, il primo dialogo tra Mania e Amin), ma anche contraddizione teorica di partenza nell economia del film. Ecco perché quella particolare suggestione metafisica che ha sempre sostanziato l immagine nell opera di Kiarostami qui non viene raggiunta per eccesso di artificio realistico e la regia non riesce a diventare puro occhio grazie al troppo sperimentalismo. Certo rimangono una densità di pensiero e unacutezza nell uso del digitale notevoli, ma per il semplice fatto che un purosangue non diventerà mai un brocco. Peccato, perché nella Cannes di Arca russa e de Il pianista, Dieci poteva ritagliarsi un suo spazio come proposta sullo sguardo e sulla sua reale capacità di produrre immagini. Così siamo solo di fronte ad un capolavoro mancato. |