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le Vent nous emportera,
Francia / Iran, 1999
di Abbas Kiarostami, con Behzad Dourani
Una piccola mela verde cade e rotola intorno per un po. Una strada
sterrata si apre in un campo di grano, percorsa da due uomini in motocicletta;
una tartaruga voltata sul dorso riesce a rimettersi sulle zampe; una
donna, il volto coperto dalloscurità di una grotta, munge
la sua vacca mentre un estraneo le declama dei versi.
Con laconiche dichiarazioni alla stampa Kiarostami sostiene banalmente
la strategia del film lasciato completare al pubblico, che dovrebbe
estorcere la sua storia da un autore quanto mai reticente. Se è
senza dubbio difficile tirare le fila del percorso narrativo de Il
vento ci porterà via, debolmente tracciato tra gli angoli
assolati di un piccolo paese curdo, tutto comunque è giocato
secondo una logica rigorosa, tutto rimane, come sempre in Kiarostami,
in equilibrio su sottili linee di senso, si condensa in singole immagini
fortemente simboliche, e ciò che resta fuori dallinquadratura
riesce a trasformarsi in illuminante presenza.
Su questo tetto, che in ogni attimo teme il crollo
Le nuvole come un popolo in lutto
Attendono il momento della pioggia
Un regista di Teheran - e non un ingegnere come ci si ostina
a scrivere da più parti - viene mandato in un remoto villaggio
del Kurdistan iraniano insieme alla sua troupe, con il compito di girare
del materiale sul rituale funebre del luogo: una vecchissima donna malata
sta infatti per morire. In questo scarno meccanismo drammatico (lattesa),
un legame che si stabilisce immediatamente è quello tra cinema-comunicazione
e morte, tra uno sguardo illusoriamente (e impudicamente) convinto della
propria necessità sulla vita e la reale necessità della
morte.
Il protagonista attende con crescente impazienza, ma la vecchia donna
sembra resistere tenacemente: i giorni passano, la situazione ristagna.
Quando squilla il cellulare egli per ricevere il segnale è costretto
a raggiungere la parte più elevata del paese, il cimitero, dove
un manovale scava una buca per far piantare un palo telefonico in vista
dellimminente allaccio: ancora più forte si fa lequivalenza
tra comunicazione e morte, tra mediazione della vita (gli indigeni non
si lasciano fotografare) intesa come forma di dominio sulla natura e
la sua irrimediabile alterazione e negazione. Sul protagonista si accumulano
i segni funerei del femore trovato al cimitero e conservato nellautomobile,
della tartaruga rivoltata con il piede in un momento di rabbia per lasciarla
morire al sole: il regista è portatore di morte, o meglio coltiva
la pretesa di poter disporre della vita e della morte come semplici
reagenti della superiore alchimia dellarte.
Egli parla con la vicina di casa incinta, guardandola attraverso lo
specchio davanti al quale si sta radendo e non la riconosce quando gli
appare dopo pochi giorni già sgravata: ancora una volta uno sguardo
mediato e limpossibilità di un reale contatto con la natura,
lossessione della morte che impedisce di comprendere pienamente
landamento ciclico della vita.
Lattesa si protrae, levento tarda a arrivare, sempre più
frequenti e concitate si fanno le trasferte al cimitero, sempre più
insofferente si dimostra la troupe. Il protagonista ha un lapsus rivelatore:
quando suggerisce allamico ragazzino le risposte del compito in
classe, dice che i buoni vanno allinferno e i cattivi in paradiso.
Egli stesso chiede poi al ragazzo se lo considera buono o cattivo, mentre
si fa strada in lui la consapevolezza dellassurdità morale
dellattesa che lo ossessiona, lattesa della morte di unaltra
persona. Questa stessa ossessione lo porta a litigare con il giovane
amico, mentre i suoi stessi compagni di viaggio finiranno per dileguarsi.
Resiste solo lamicizia stretta con luomo che al cimitero
ogni giorno continua a scavare la sua buca; non si incontrano mai, si
parlano, il protagonista beve il suo tè e intravede la sua giovane
donna che corre via per i campi dopo aver portato del latte allinnamorato.
Anche lui vorrebbe del latte e va a cercarlo proprio a casa della ragazza:
la madre gli dice di scendere in cantina, una grotta scavata nella pietra
completamente al buio; egli è spaventato dalloscurità,
si cala dentro riluttante mentre lo schermo si annerisce per una manciata
di secondi.
Lì sotto cè la ragazza, una vacca e una piccola
lampada a olio poggiata a terra il cui fascio di luce lascia nascosto
il viso di lei, illuminandone solo i drappeggi della gonna rossa e oro.
Malgrado linsistenza del protagonista ella non si rivela: munge
lentamente il latte mentre egli recita per lei, immobile, i versi della
poetessa persiana Forough Farrokhzad, versi damore e dabbandono
estatico ai sensi.
Oh! Corpo rigoglioso
Le tue mani, come doloroso ricordo,
poggiale tra le mie mani innamorate.
E le tue labbra, come una sensazione calda di vita,
lasciale carezzare le mie labbra innamorate.
Il vento ci porterà via.
La sequenza, tra le più intense dellintera filmografia
del regista, segna la lenta riscoperta della vita come valore assoluto
da parte del protagonista, sorpreso nella percezione improvvisa e misteriosa
dellamore che la giovane personifica e distilla nellatto
quasi materno dellofferta del latte: il vero e proprio rituale
della mungitura, cadenzato dal ritmo dei versi, si oppone al rituale
funebre tanto ossessivamente atteso, ne converte lenergia negativa
nel circolo virtuoso delle ciclicità naturali. Se quel rito,
come apprendiamo durante il film, consisteva essenzialmente nel gesto
da parte delle donne di graffiarsi il viso a sangue, in segno di esternazione
del dolore portato dal lutto, non è un caso che per il rito della
vita rimanga nascosto il viso della ragazza; levidenza e la sconcezza
del grido si capovolgono nel pudore sommesso dellascolto silenzioso
e in una visione negata e perciò rispettosa. Il regista non media-domina
la vita, neanche può guardarla.
La redenzione del protagonista è tuttavia solo allinizio.
Lamico scavatore è vittima di una frana che lo sotterra
ed è lui a dare lallarme alla gente del villaggio. Per
la prima volta Kiarostami ce lo mostra mentre con la macchina percorre
la strada dal cimitero verso il paese, quando per tutto il film avevamo
seguito il tracciato inverso. Lamico si salva e di nuovo lo stesso
percorso è battuto, stavolta a cavallo di una motocicletta guidata
dal dottore del villaggio: la moto attraversa i campi dorati, fende
una natura finora mai mostrata nel pieno rigoglio, mentre il dottore
espone con semplicità la sua filosofia di vita serenamente terrena
e insieme al passeggero declama nuovi versi sullattaccamento ai
piaceri fisici dellesistenza. La riconciliazione con la natura
è completa, laccettazione delle sue leggi e dei suoi ritmi
matura pienamente nel protagonista, che convince il dottore a venire
a visitare anche la vecchia moribonda; sarà lui poi ad andarle
a comprare le medicine.
Ma ancora un rovescio lo attende: la vecchia proprio stavolta muore,
dalla sua casa ascoltiamo i lamenti sommessi dei parenti. Definitivamente
la natura ha affermato le sue leggi imperscrutabili e limpossibilità
delluomo di controllarne i rivolgimenti se non assecondandone
il corso. Il protagonista ora può girare il suo reportage? Solo
due foto scattate a un corteo femminile allinizio della cerimonia;
poi ripone la macchina e lascia in silenzio il paese in lutto. La conversione
ora è completa: prima di partire egli prende il vecchio osso
dal cruscotto dellauto e lo lancia nel fiume. Lo scorrere della
natura è pienamente ripristinato.
Ora torniamo alla mela verde dellinizio. La cinepresa che insegue
per il suo percorso casuale la piccola mela caduta, che va a finire
in una scanalatura e precipita al piano di sotto, è lemblema
di un cinema che prima di tutto insegna la disponibilità verso
la vita. Lo stretto rapporto del cinema di Kiarostami con la vita, gli
intrecci a volte vertiginosi di realtà e finzione dei suoi film,
testimoniano la profonda umiltà di uno sguardo che si rivolge
al dato reale per conservarne sopra ogni altra cosa lautonoma
vitalità, la forza imprevedibile. Nasce così un pudore
della visione assolutamente raro, la scelta di un cinema che emerge
solo di contraccolpo rispetto la vita e spesso non esita a distogliere
da questa lo sguardo, per istintivo pudore.
Nel finale del Sapore della ciliegia, il lunghissimo,
insostenibile, schermo nero che non ci permette di conoscere il destino
del protagonista, segna lincapacità della cinepresa di
osare pronunciare la parola definitiva sulla vita e sulla morte: assistiamo,
rinvenendo dalloscurità, a un piccolo film nel film, un
lungo frammento in video di vita sul set. Il cinema ha abbassato lo
sguardo, può solo serenamente ripiegare su se stesso e guardarsi.
Come il protagonista de Il vento ci porterà via
ha imparato a distogliere umilmente lo sguardo e ad accettare il corso
naturale delle cose, Kiarostami ancora sa indugiare sullincerto
rotolare di una mela.
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