la Croce di ferro
Immagine di morte
di Esteban Lola

 
  Cross of Iron, Gb / Rft, 1977
di Sam Peckinpah, con James Coburn, Maximilian Schell, James Mason


La Croce di Ferro rimane uno dei film più discussi tra quelli realizzati da Sam Peckinpah: la violenza, che il regista americano ha sempre mostrato senza veli e mistificazioni, domina qui la scena in ogni senso, assumendo a tratti un carattere visionario.
A parziale rimborso delle accuse portate da molti, in maniera spesso superficiale e ad un livello di basso profilo ideologico, nei confronti del film, confessiamo subito la nostra infinita simpatia per una pellicola incredibilmente dura ed intensa; La Croce di Ferro, per vari motivi, costituisce un caso decisamente anomalo sia per l'autore, sia in relazione al cinema bellico storicamente realizzato negli Stati Uniti. Colpisce in primo luogo la genesi di una coproduzione internazionale, grazie alla quale il regista andò ad effettuare le riprese in Europa, in territorio yugoslavo, trasferendo nel suo unico film di guerra molte tensioni ed elementi stilistici del suo cinema Western. Sempre rimanendo nel campo delle anomalie, non è successo di frequente che un figlio scontroso e ribelle di Hollywood si sia esiliato per raccontare all'America e al mondo una guerra.... senza gli americani! Quanto mostra La Croce di Ferro si svolge interamente tra le file dell'esercito tedesco in rotta nel '43 sul fronte russo, e nei rapidi e cruenti incontri con il nemico.
Peckinpah rappresenta l'orrore per quello che è, ogniqualvolta lo ritenga necessario; denuncia anche le spinte folli e morbose che ne sono all'origine, ma non rimane ancorato ai canoni del cinema di guerra impegnato, di denuncia. Gli orizzonti del western, da lui già trasformati in più di una occasione, si affacciano in un contesto inedito; la mitragliatrice, già protagonista indiscutibile de Il mucchio selvaggio, torna a convogliare gli istinti umani verso l'impulso al massacro, mentre si delinea sempre di più il senso di una sfida.
Proprio mentre il conflitto è così aspro da annullare la volontà e le possibilità del singolo, Peckinpah amplifica il senso delle scelte individuali, ricorrendo se necessario al mito e al paravento dell'allucinazione. Accanto a corpi fin troppo deperibili e presto maciullati si stagliano le azioni di coloro che sembrano indistruttibili: il sergente Steiner (James Coburn), il capitano Stranski (Maximilian Schell), il colonnello Brandt ( James Mason), si avviano verso l'epilogo con le armi in pugno, ma il loro giocare a nascondino con la morte è parte integrante dello sporco gioco: gli è stato concesso di durare perché il loro carattere e il senso delle loro decisioni divenisse esemplare, una deviazione verso la leggenda. Rimane il fatto che il nazismo è una stupidità troppo solenne e quasi astratta per essere presente in trincea, se non in piccole dosi. Il capitano Stranski fa morire chi da vicino lo ostacola per motivi decisamente più banali, concentrando in sè arroganza e paure, figlio contorto di un'oligarchia, di un potere che quasi mai è in buone mani: con lui si capisce che si può uccidere anche per una decorazione destinata ad arruginirsi presto, o semplicemente per un'educazione bigotta. Steiner è uno che non si può dimenticare, è in grado di badare ai suoi uomini e di conservare un personale criterio etico anche di fronte alla distruzione di massa: finché gli sarà possibile, rimarrà custode della propria sopravvivenza fisica, non essendo disposto a dare credito a idoli di natura differente, sospetta; non sarebbe stato troppo diverso da così in un film di Robert Aldrich o di Sam Fuller.
Ma il regista, non lo dimentichiamo, è Sam Peckinpah, e una guerra ricostruita con tutti i colori del fango si anima incessantemente sotto i colpi di un montaggio a tamburo battente, che impazzisce ad ogni ripresa delle ostilità, elencando antologicamente le numerose morti in una perpetua oscillazione tra l'onirico e l'iperrealistico. Sempre grazie al montaggio le donne soldato, che nelle retrovie si credevano sicure, partecipano del massacro, nell' impossibilità di un incontro meno drammatico con gli invasori.
Ma dopo lo scandalo della mitragliatrice nulla può essere come prima, e il mito prende il sopravvento. Quello che oggi si direbbe polticamente scorretto si fa breccia in uccisioni plateali, nel desiderio di vendetta di Steiner e dei suoi sopravvissuti. Gli uomini non obbediscono più ai propri ruoli e assecondano le proprie vocazioni più segrete. Steiner, come se niente fosse, si mette nelle condizioni di uccidere Stranski, e subito dopo di essere ucciso da lui, ma sa in cuor suo che è finito il tempo sia del tradimento che delle vendette. È finito tutto. Steiner e Stranski si lanciano l'ultima sfida, esibendo un sorriso beffardo e addirittura un po' complice, prima di riappropriarsi della propria diversità. Tra le macerie vagano anche quei ragazzini partigiani russi che la guerra, in quanto omicidio di massa autorizzato, può uccidere e rimpiazzare quando vuole.
Tutto si avvia verso la sua logica conclusione, anche se nelle immagini e nel sonoro si avverte un tocco aggiunto di isteria. Poi il tempo si blocca. Rimane solo quella risata del Sergente Steiner, sinistra e selvaggia, unica cosa destinata a sopravvivere, impermeabile alla Storia, al pubblico, forse a Peckimpah stesso.

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Wanted: Sam Peckinpah