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Correndo con le forbici in mano
Running With Scissors, Usa, 2006
di Ryan Murphy, con Annette Bening, Brian Cox, Evan Rachel Wood, Jill Clayburg

American Psychotic
recensione di Ilario Pieri



Strane alchimie affascinano piccolo e grande schermo in questi ultimi tempi: dopo i nerissimi corvi e il sottile sarcasmo dei Fisher di "Six Feet Under" ecco arrivare un’allegra brigata di adulti interrotti, alle prese con la terapia più annosa e complessa: la vita. Presentato come un esperimento intrigante per poter parlare di tematiche delicate con leggerezza, Correndo con le forbici in mano non colpisce nel segno. La sua forma ibrida, sempre a metà fra un dramma familiare scombiccherato, con un occhio rivolto alla ricostruzione fedele di un’America tra i Settanta e gli Ottanta, colta davvero nei dettagli, scivola a stento in un copione dilatato nelle due ore di proiezione. Il cast è di prim’ordine anche se a inciampare è proprio l’interprete dalla quale ci si aspettava di più: Annette Bening. Cotta a puntino nella folle isteria disperata del vecchio American Beauty, lady Beatty non riesce a dosare il giusto equilibrio richiesto per un ruolo materno assai arduo. Sorprendono invece le doti e la maturità di un Joseph Finnes impeccabile nei panni di un personaggio intenso e difficile, come pure la straordinaria versatilità di Jill Clayburgh, donna depressa e sottomessa al punto di sprofondare su una poltrona ogni sera davanti ad un film horror, sgranocchiando croccantini per cani. Nulla da eccepire poi in merito alle performance di un sempre in gamba Alec Baldwin, padre alcolizzato e in fuga quando la barca comincia ad affondare, e di Brian Cox, divertito nel mettere in scena uno stralunato strizzacervelli incapace di confrontarsi con la realtà. Ancora una volta la macchina da presa si diverte a spiare gruppi di famiglia in un interno, ma stavolta è la facciata a far drizzare i capelli: non occorre varcare la soglia d’ingresso, per rendersi conto di quanto beffardo sia talvolta il destino. L’esistenza esasperata del protagonista Augusten viaggia tra le architetture dell’epoca e qualche bella canzone (da Nat King Cole, passando per Bill Evans fino a Bruce Springsteen) all’insegna dell’insicurezza e della paura di un figlio dall’innocenza infranta e da una società work in progress: padre e madre sono frutto di un sistema sconvolto, vittima delle metamorfosi di un Paese in cerca d’identità. Augusten guarda gli adulti come un branco di esseri mostruosi in cerca di risposte e li osserva sempre più da vicino per comprenderli e perdonare alcune loro debolezze; la famiglia dello psichiatra, presso il quale è affidato il ragazzo dopo il divorzio dei suoi, sa di strano intruglio tra le efferatezze di una Evan Rachel Wood in versione Mercoledì Addams, e un falso intellettualismo che accomuna Sigmund Freud all’illustratore Edward Gorey, con una confezione non dissimile da i Tenenbaum. Di Anderson manca la scrittura, l’amore strambo ma incondizionato per l’altro, la cattiveria puntuta di alcune trovate da incorniciare in pellicole preziose. L’adattamento di Ryan Murphy (icona televisiva prestata al cinema) risulta freddo e meccanico e con il passare del tempo allenta il ritmo già compassato di una pellicola a tratti noiosa. Spesso non si riesce a prestare la giusta attenzione al concetto di umorismo nero: passino le morbose intenzioni di "Nip & Tuck", ma qui tutto profuma di malinconia, di pianto, di amara solitudine: c’è poco da ridere quando attraverso le particolari annotazioni dal diario dello sfortunato Burroughs in lotta con se stesso e con gli altri, per non sprofondare nella gigantesca follia dal quale è sommerso, la regia rispolvera a modo suo avvenimenti realmente accaduti per quanto grotteschi e inverosimili.