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Strane alchimie affascinano piccolo
e grande schermo in questi ultimi tempi: dopo i nerissimi corvi e il
sottile sarcasmo dei Fisher di "Six Feet Under" ecco arrivare
unallegra brigata di adulti interrotti, alle prese con la terapia
più annosa e complessa: la vita. Presentato come un esperimento
intrigante per poter parlare di tematiche delicate con leggerezza, Correndo
con le forbici in mano non colpisce nel segno. La sua forma
ibrida, sempre a metà fra un dramma familiare scombiccherato,
con un occhio rivolto alla ricostruzione fedele di unAmerica tra
i Settanta e gli Ottanta, colta davvero nei dettagli, scivola a stento
in un copione dilatato nelle due ore di proiezione. Il cast è
di primordine anche se a inciampare è proprio linterprete
dalla quale ci si aspettava di più: Annette Bening. Cotta a puntino
nella folle isteria disperata del vecchio American
Beauty, lady Beatty non riesce a dosare il giusto equilibrio richiesto
per un ruolo materno assai arduo. Sorprendono invece le doti e la maturità
di un Joseph Finnes impeccabile nei panni di un personaggio intenso
e difficile, come pure la straordinaria versatilità di Jill Clayburgh,
donna depressa e sottomessa al punto di sprofondare su una poltrona
ogni sera davanti ad un film horror, sgranocchiando croccantini per
cani. Nulla da eccepire poi in merito alle performance di un sempre
in gamba Alec Baldwin, padre alcolizzato e in fuga quando la barca comincia
ad affondare, e di Brian Cox, divertito nel mettere in scena uno stralunato
strizzacervelli incapace di confrontarsi con la realtà. Ancora
una volta la macchina da presa si diverte a spiare gruppi di famiglia
in un interno, ma stavolta è la facciata a far drizzare i capelli:
non occorre varcare la soglia dingresso, per rendersi conto di
quanto beffardo sia talvolta il destino. Lesistenza esasperata
del protagonista Augusten viaggia tra le architetture dellepoca
e qualche bella canzone (da Nat King Cole, passando per Bill Evans fino
a Bruce Springsteen) allinsegna dellinsicurezza e della
paura di un figlio dallinnocenza infranta e da una società
work in progress: padre e madre sono frutto di un sistema sconvolto,
vittima delle metamorfosi di un Paese in cerca didentità.
Augusten guarda gli adulti come un branco di esseri mostruosi in cerca
di risposte e li osserva sempre più da vicino per comprenderli
e perdonare alcune loro debolezze; la famiglia dello psichiatra, presso
il quale è affidato il ragazzo dopo il divorzio dei suoi, sa
di strano intruglio tra le efferatezze di una Evan Rachel Wood in versione
Mercoledì Addams, e un falso intellettualismo che accomuna Sigmund
Freud allillustratore Edward Gorey, con una confezione non dissimile
da i Tenenbaum. Di Anderson manca la scrittura,
lamore strambo ma incondizionato per laltro, la cattiveria
puntuta di alcune trovate da incorniciare in pellicole preziose. Ladattamento
di Ryan Murphy (icona televisiva prestata al cinema) risulta freddo
e meccanico e con il passare del tempo allenta il ritmo già compassato
di una pellicola a tratti noiosa. Spesso non si riesce a prestare la
giusta attenzione al concetto di umorismo nero: passino le morbose intenzioni
di "Nip & Tuck", ma qui tutto profuma di malinconia, di
pianto, di amara solitudine: cè poco da ridere quando attraverso
le particolari annotazioni dal diario dello sfortunato Burroughs in
lotta con se stesso e con gli altri, per non sprofondare nella gigantesca
follia dal quale è sommerso, la regia rispolvera a modo suo avvenimenti
realmente accaduti per quanto grotteschi e inverosimili.
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