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The Royal Tenenbaums,
USA, 2001
di Wes Anderson, con Gene Hackman, Anjelica Huston,
Gwyneth Paltrow, Ben Stiller, Owen Wilson, Luke Wilson, Bill Murray,
Danny Glover, Alec Baldwin, Seymour Cassel
Primo quesito: si può amare talmente tanto i propri personaggi
da riuscire a presentarceli come se non esistessero? Come se fossero
semplici figurine, o meglio fumetti? Wes Anderson ci riesce in pieno,
ed ecco perciò che le varie figure del film, soprattutto i figli,
indossano sempre la solita tuta dellAdidas o sempre labbigliamento
chic da tennis stile Bjorn Borg. Secondo quesito: si può amare
talmente tanto una città da restituircela esattamente come una
cartolina? Certo che si può, ed ecco che perciò New York
è ancor più favolistica e patinata che nei film di Woody
Allen (a cui il texano Anderson, e non poco, ci pare ispirarsi). Terzo
quesito: in che maniera si può dimostrare ancora amore per il
film che si sta girando? E qui arriva la risposta davvero originale
dellautore, regista che già ha piena proprietà del
mezzo: Anderson gira ogni inquadratura in perfetta simmetria, mettendo
sempre i personaggi e gli oggetti più significativi al centro
del fotogramma. Leffetto che ne ottiene è talvolta spiazzante
e non sempre bello da vedere, ma di sicuro impatto. Da questa miscela
di elementi, amalgamata da una sceneggiatura che apparentemente sembra
non raccontare nulla di particolare, ma lo fa con grazia sopraffina,
sono venuti fuori I Tenenbaum, gioiello di comicità depressa,
a tratti disperata. Si tratta di un film che gronda autocompiacimento,
colmo di spocchiosa autorialità sia cinefila che letteraria.
Eppure, la vera sorpresa della pellicola è che, anche per questo,
funziona. Anzi soprattutto per questo: non prova neppure a nascondere
la sua matrice altezzosa ed intellettuale, ma ce la propina con così
tanta classe da intenerirci. Come non innamorarsi allora dellipocrita
e meschino Royal (un Gene Hackman da inchino), della dolce e spaesata
Gwyneth Paltrow, del malinconico Ben Stiller?
Quast'autocompiacimento che permea I Tenenbaum ha un profumo
puramente inglese. Anzi, "beatlesiano" (non casuale "Hey
Jude" in colonna sonora): le figurine di Wes Anderson sono campioni
di understatement, si muovono con una leggerezza da invidiabili cliché
di personaggi teneri e mostruosi. Ma da qualche parte nella canzone
c'è un momento in cui le parole svoltano, magari per un attimo,
e svelano l'unicità e la profondita del personaggio magari con
un semplice svolazzo, un punto in cui anche la melodia si fa più
calda, o triste, o particolare. I Tenenbaum vive di pieghe nel
racconto esilarante della terribile inevitabilità della famiglia:
"Family Isn't A Word... It's A Sentence" ("famiglia non
è una parola: è una condanna" - gioco di parole con
"sentence", sia "frase" che "condanna"),
come recita la frase di lancio originale. I figli di Royal sembrano
aver sviluppato doti eccezionali per compensare la mancanza di amore
di un padre eccentrico e assente, ma il successo sociale non li ha protetti
da una deriva emotiva sotterranea, che alla fine li riconduce nella
casa della loro infanzia per ritornare alle radici della depressione
che li ha contagiati. E il film racconta mano a mano perché l'immagine
di famiglia-prodigio è falsa almeno quanto una tazza con su scritto
"world's greatest dad": perché I Tenebaum non
sono che, paradossalmente, la versione "al negativo" della
Famiglia Addams. La versione realmente "nera" e disfunzionale
di un gruppo di persone che, al contrario degli Addams, il mondo può
agilmente considerare di successo e più che accetabile. Il mondo
non può comprendere le profondità del dolore dei Tenenbaum,
e questa incomprensione è la condanna familiare dei filgli di
Royal: costretti per sopravvivere a ingannarsi da soli, a corrispondere
all'imagine da loro stessi creata, mano a mano si ritirano dalla vita
pubblica, rosi dall'insoddisfazione e dalla consapevolezza dilagante
di non essersi mai confrontati ed amati come era necessario. Ma per
fortuna Wes Anderson non lascerebbe mai da sole le sue creature, e con
il ritorno in famiglia traccia un percorso di redenzione personale e
collettiva che, a partire da Royal, coinvolge ogni personaggio senza
abbandonare mai il tono leggero da satira delle emozioni che fa brillare
tutto il film di una luce unica. |