i Tenenbaum

Maledetti vi amerò
di Adriano Ercolani e Luca Persiani

 
  The Royal Tenenbaums, USA, 2001
di Wes Anderson, con Gene Hackman, Anjelica Huston, Gwyneth Paltrow, Ben Stiller, Owen Wilson, Luke Wilson, Bill Murray, Danny Glover, Alec Baldwin, Seymour Cassel


Primo quesito: si può amare talmente tanto i propri personaggi da riuscire a presentarceli come se non esistessero? Come se fossero semplici figurine, o meglio fumetti? Wes Anderson ci riesce in pieno, ed ecco perciò che le varie figure del film, soprattutto i figli, indossano sempre la solita tuta dell’Adidas o sempre l’abbigliamento chic da tennis stile Bjorn Borg. Secondo quesito: si può amare talmente tanto una città da restituircela esattamente come una cartolina? Certo che si può, ed ecco che perciò New York è ancor più favolistica e patinata che nei film di Woody Allen (a cui il texano Anderson, e non poco, ci pare ispirarsi). Terzo quesito: in che maniera si può dimostrare ancora amore per il film che si sta girando? E qui arriva la risposta davvero originale dell’autore, regista che già ha piena proprietà del mezzo: Anderson gira ogni inquadratura in perfetta simmetria, mettendo sempre i personaggi e gli oggetti più significativi al centro del fotogramma. L’effetto che ne ottiene è talvolta spiazzante e non sempre bello da vedere, ma di sicuro impatto. Da questa miscela di elementi, amalgamata da una sceneggiatura che apparentemente sembra non raccontare nulla di particolare, ma lo fa con grazia sopraffina, sono venuti fuori I Tenenbaum, gioiello di comicità depressa, a tratti disperata. Si tratta di un film che gronda autocompiacimento, colmo di spocchiosa autorialità sia cinefila che letteraria. Eppure, la vera sorpresa della pellicola è che, anche per questo, funziona. Anzi soprattutto per questo: non prova neppure a nascondere la sua matrice altezzosa ed intellettuale, ma ce la propina con così tanta classe da intenerirci. Come non innamorarsi allora dell’ipocrita e meschino Royal (un Gene Hackman da inchino), della dolce e spaesata Gwyneth Paltrow, del malinconico Ben Stiller?
Quast'autocompiacimento che permea I Tenenbaum ha un profumo puramente inglese. Anzi, "beatlesiano" (non casuale "Hey Jude" in colonna sonora): le figurine di Wes Anderson sono campioni di understatement, si muovono con una leggerezza da invidiabili cliché di personaggi teneri e mostruosi. Ma da qualche parte nella canzone c'è un momento in cui le parole svoltano, magari per un attimo, e svelano l'unicità e la profondita del personaggio magari con un semplice svolazzo, un punto in cui anche la melodia si fa più calda, o triste, o particolare. I Tenenbaum vive di pieghe nel racconto esilarante della terribile inevitabilità della famiglia: "Family Isn't A Word... It's A Sentence" ("famiglia non è una parola: è una condanna" - gioco di parole con "sentence", sia "frase" che "condanna"), come recita la frase di lancio originale. I figli di Royal sembrano aver sviluppato doti eccezionali per compensare la mancanza di amore di un padre eccentrico e assente, ma il successo sociale non li ha protetti da una deriva emotiva sotterranea, che alla fine li riconduce nella casa della loro infanzia per ritornare alle radici della depressione che li ha contagiati. E il film racconta mano a mano perché l'immagine di famiglia-prodigio è falsa almeno quanto una tazza con su scritto "world's greatest dad": perché I Tenebaum non sono che, paradossalmente, la versione "al negativo" della Famiglia Addams. La versione realmente "nera" e disfunzionale di un gruppo di persone che, al contrario degli Addams, il mondo può agilmente considerare di successo e più che accetabile. Il mondo non può comprendere le profondità del dolore dei Tenenbaum, e questa incomprensione è la condanna familiare dei filgli di Royal: costretti per sopravvivere a ingannarsi da soli, a corrispondere all'imagine da loro stessi creata, mano a mano si ritirano dalla vita pubblica, rosi dall'insoddisfazione e dalla consapevolezza dilagante di non essersi mai confrontati ed amati come era necessario. Ma per fortuna Wes Anderson non lascerebbe mai da sole le sue creature, e con il ritorno in famiglia traccia un percorso di redenzione personale e collettiva che, a partire da Royal, coinvolge ogni personaggio senza abbandonare mai il tono leggero da satira delle emozioni che fa brillare tutto il film di una luce unica.