l'Amore ritorna

Ovvero la scissione prima della Grazia
di Claudia Russo

 
  Italia, 2004
di Sergio Rubini, con Sergio Rubini, Giovanna Mezzogiorno, Fabrizio Bentivoglio, Margherita Buy


Ultimamente abbiamo paura.
Che Dio sia morto - The Passion, Gibson ed effetti speciali permettendo - lo sappiamo tutti da un pezzo ed alcuni di noi, certo i migliori, se ne sono pure fatti una ragione (sia essa dettata dalla fede, dalla cultura, o dalla mancanza di entrambe, non ha alcuna importanza…)
E se il Cristo diventa carne da macello e il Diavolo ha il volto scavato di una donna anoressica va ancora tutto bene…ciò che invece non si riesce proprio a tollerare è il disfacimento del proprio corpo, la fine di se stessi, la morte dell’uomo.
Troppo difficile sarebbe per me, contagiata dalla sindrome dell’immortalità, tracciare un quadro anche parziale delle opere cinematografiche (e non) che abbiamo meglio di altre affrontato a viso aperto la più grande di tutte le paure e il più inquietante di tutti i misteri.
Resto allora in sala cinematografica, in Italia, oggi.
Il più bel film che tratti dall’inizio alla fine (del film e della vita, che poi è lo stesso) l’argomento “morte” senza perderlo di vista per un istante e senza mai cadere in facili compiacimenti, è Le invasioni barbariche di Denys Arcand.
Rigoroso e “protestante”, il film franco-canadese mette in scena una morte annunciata e inevitabile.
Non c’è illusione o fede nei miracoli, non c’è disperazione ma solo “accettazione”.
Il cerchio è lo stesso, e continua a girare, nell’ultimo capolavoro burtoniano in cui il pesce grande genera quello piccolo in attesa di essere da questi superato e “divorato”…per vivere per sempre.
L’idea alla base della riflessione è la concezione circolare della vita, l’assoluta e assurda e insostenibile certezza che tutto sia in eterno movimento-mutamento; che non ci sia alcun principio e alcuna fine. E senza Genesi non può esserci Resurrezione.
Altra ottima variazione sul tema proviene finalmente dall’Italia ma deve parte del suo spessore alla commovente interpretazione di una spagnola, Penelope Cruz, irriconoscibilmente vera. Per nulla brutta (come potrebbe esserlo?!) come si è detto e scritto, ma solo stanca e “sofferta” come il personaggio richiede, la protagonista di Non ti muovere muore tra atroci sofferenze ma il suo sacrificio, e non potrebbe essere altrimenti, non resta vano perché è motivo di nuova fede e speranza, nuova volontà e determinazione.
Si potrebbe continuare, certo, ma è il momento che mi soffermi sul film che ha innescato questa luttuosa (si può ben dire) catena visivo-riflessiva: L’amore ritorna.
In un panorama, quello nostrano, afflitto da un’endemica carenza di vere novità, individuare spunti originali ed exploit personali risulta da tempo impresa non dico eroica, ma certamente difficile.
Sergio Rubini, coadiuvato anche questa volta nella stesura della sceneggiatura dall’amico-maestro Domenico Starnone, ha realizzato un film particolare ma volutamente non originale.
Autore quattro anni fa del non brillante Tutto l’amore che c’è, in cui rendeva omaggio alla sua terra (è nato a Grumo Appula, in provincia di Bari) con un eccesso di nostalgia mal mitigato dalla poco rigorosa messa in scena (gli anni ’70 che fanno da sfondo alla vicenda si riducono ad una colonna sonora e il puritanesimo meridionale viene irriso e criticato solo negli aspetti più superficiali), stavolta l’autore-attore dimostra di essere cresciuto e maturato.
La nostalgia per la Puglia è diventata amore per le sue tradizioni e superstizioni e la critica ai costumi ha assunto un più vasto respiro stringendo in un unico abbraccio una Milano di nebbia e ipocrisia e una Roma di terrazze e grandi pranzi.
Scena prima: una bara bianca e piccola. Scena ultima: una bambina bianca e piccola.
Ma non ingannatevi: qui la circolarità non c’entra nulla.
Anche se il titolo dice che L’amore ritorna, è stato lo stesso il regista a confessare che il titolo originariamente scelto era L’amore se ne va, poi modificato “perché troppo macabro e avvilente…”.
E adesso ci siamo: abbiamo paura.
Paura del macabro e dell’avvilente, della sofferenza senza premio e della malattia senza guarigione. Ecco perché l’attore Luca Florio, interpretato dal sempre bravo Fabrizio Bentivoglio, alla fine guarisce.
Ecco perché il processo di scissione cui è da anni soggetto il personaggio (nord-sud; moglie-amante; vita reale-mondo del cinema) e che si va chiaramente delineando durante la permanenza nell’ospedale milanese alla fine è destinato alla rasserenata e rasserenante riconciliazione.
Ecco perché l’ex moglie ha dimenticato che la vendetta è un piatto che va servito freddo e la nuova fidanzatina se ne può scappare infine senza troppo far soffrire…
I personaggi sono sinceri e credibili e le insicurezze, soprattutto quelle della giovane amante, una Giovanna Mezzogiorno più rotonda del solito ma certo non meno affascinante e imbronciata, non solo si giustificano facilmente, ma generano anche quella simpatia che, etimologicamente parlando, permette la facile identificazione.
Rubini fa un’operazione furba ma ha il buon gusto di giocare a carte scoperte e di mescolare il buonismo pro-botteghino al fascino del magico e del superstizioso del nostro sud.
Ad interrompere a tratti il dramma di Luca, inserendo violentemente il passato nel presente per mescolarli con cura, la storia-leggenda della giovane cugina defunta, quella vestita di bianco…
Scene ben girate che parlano meglio di tante battute sono la corsa liberatoria di Luca trasportato su una barella da due personaggi perfettamente opposti per le strade di una Milano crepuscolare, e quella in cui il protagonista si sveglia in una sala d’ospedale e vede accanto a sé un altro letto in cui giace proprio lui, ma nudo, bianco e immobile.
Inserite nella colonna sonora con intento connotativo, bellissime vecchie canzoni come Amore baciami (C. A. Rossi) e Voglio vivere così (F. Tagliavini).