Cinema, film, recensioni, critica. Offscreen.it


American gangster
id., Usa, 2007
di Ridley Scott, con Denzel Washington, Russell Crowe, Chiwetel Ejiofor, Lymari Nadal, Carla Gugino

Gli inconsapevoli duellanti del fuori campo
recensione di Giuliano Tomassacci



Ridley Scott si è presentato al nuovo millennio come un regista per tutte le stagioni. Uno degli autori dalla connotazione più libera e personale del ventennio ‘70-’80 ha attraversato il post-modernismo con l’eclettismo dagli esiti altalenanti - spesso tiepidi (il Gladiatore) quando non addirittura frivoli (un’Ottima annata) - di un mestierante d’alta classe della Hollywood anni ’50 - con l’aggiunta di un notevole potere produttivo. Che il turbinio di povertà tematica e la necessità di affiliazione al gusto dirompente di un pubblico contemporaneo assuefatto alla forma estetica luccicante e alla scansione di montaggio frammentaria abbiano ingabbiato anche altri eccellenti rappresentanti della scuola moderna è un dato di fatto, ma certo la voga del momento non poteva attecchire maggiormente su un autore tanto predisposto, sin dagli esordi votato all’adulterazione ritmica e al sensazionalismo fotografico. L’assenza di questi eccessi in American Gangster definisce da subito l’atteggiamento differente di quest’ultima prova. La più convincente da almeno dieci anni.
Scott abbandona in prima battuta il rifulgente, abbacinante e contemporaneo tratto luministico di John Mathieson e Slawomir Idziak affidandosi alla saggezza contrasta, ma altrettanto potente, di Harris Savides. Anche al collaboratore di lunga data Pietro Scalia, Scott requisisce stavolta il permesso per un montaggio irregolare. Lui stesso rinuncia all’abusata soluzione di ripresa con otturatore variabile, responsabile degli acceleramenti di cui è indubbiamente stato tra i più convinti trendsetter. Autoregolamentazioni che poco hanno a che vedere con un’arida concezione del testo o con una stanchezza di stile, ma stillano anzi da una finalmente coscienziosa commisurazione della rappresentazione con il materiale narrativo. La fondamentale sceneggiatura (da un articolo di Mark Jacobson) di un’eccellente Steven Zaillian - un concentrato squisitamente misurato dell’umanesimo gangsteristico per il grande schermo - dipana l’enfasi insistita caratteristica di molte opere scottiana - tracimante alle volte nel becero didascalismo - elevandola ad una concentrazione drammaturgia che si articola lentamente in tappe risolutive, definendo un procedimento a scansione parallela capace di crescere silenziosamente e coinvolgere più di un combattimento nell’arena o di una breccia nella roccaforte. E la sensazione che nel film interpretato con abbondante dovizia da Denzel Washington e Russell Crowe la messa in quadro e in serie dipendano principalmente dalla storia, si fa certezza quando il ritmo accenna addirittura a richiami coppoliani (il blocco precedente l’arresto di Washington, con un cutting alternato che inframmezza liturgia e azione regolatrice). Facile invero scorgere in simili soluzioni l’abbandono al richiamo ammaliante del cliché di genere, salvo poi certificare l’assoluta funzionalità del derivatismo in un’architettura discorsiva tanto calibrata da rendere la citazione una chiave di volta quasi inevitabile - e quindi ben lecita. L’ostentata e sovente egocentrica retorica dell’estetica finalmente scalzata dalla retorica del racconto. Tale s’impone insomma il peso specifico dello script da far apparire la messa in scena di Scott mai prima d’ora così dipendente e stabile, almeno in tempi recenti.
Il vero fulcro del film, le caratterizzazioni e le dinamiche di sviluppo dei due protagonisti, segnalano esemplarmente come il soggetto offra già da sé i binari di regia su cui instradare il regime e il respiro della rappresentazione. Frank Lucas (Washington) e Richie Roberts (Crowe) non si cercano deliberatamente, non si braccano esplicitamente: il loro è un gioco al gatto e al topo involontario, non dichiarato, se non programmaticamente nelle aspirazioni opposte. L’uno boss della droga con un’idea familiare del business, l’altro detective serpichiano dai ligi valori e dalla famiglia disastrata. Due duellanti inconsapevoli, che si affrontano in una battaglia fuori campo che lì resterà relegata anche nel momento del faccia a faccia, iniziatore di un’intesa collaborativa. Eppure, ed ecco il potere automatizzante della sceneggiatura di Zaillian sulla scrittura registica, il film non perde mai solidità, cresce alimentato dalla convergenza di identità parallele che nel frattempo definiscono due studi caratteriali decisamente autonomi e appaganti. L’inaspettato scacco matto finale che letteralmente rende tale l’intreccio, palesa l’unica svolta comune ai due personaggi compensandoli reciprocamente, compiendone gli itinerari e legittimando retroattivamente l’importanza di un trattamento narrativo duplice e distanziato. L’enfasi giocata al ribasso che premia più del clamore high-concept.
Resta il dubbio sulla corretta lettura della pellicola nel contesto filmografico del regista inglese: una nuova maniera - magari quella del ritorno all’equilibrio formale, misura che già nella sua prima stagione cinematografica lo aveva portato a vette di storica efficacia - o un ulteriore incursione in un territorio finora non coperto, come farebbe pensare la definizione di genere palesata nel titolo?