Ridley Scott si è presentato
al nuovo millennio come un regista per tutte le stagioni. Uno degli
autori dalla connotazione più libera e personale del ventennio
70-80 ha attraversato il post-modernismo con leclettismo
dagli esiti altalenanti - spesso tiepidi (il Gladiatore)
quando non addirittura frivoli (unOttima
annata) - di un mestierante dalta classe della Hollywood anni
50 - con laggiunta di un notevole potere produttivo. Che
il turbinio di povertà tematica e la necessità di affiliazione
al gusto dirompente di un pubblico contemporaneo assuefatto alla forma
estetica luccicante e alla scansione di montaggio frammentaria abbiano
ingabbiato anche altri eccellenti rappresentanti della scuola moderna
è un dato di fatto, ma certo la voga del momento non poteva attecchire
maggiormente su un autore tanto predisposto, sin dagli esordi votato
alladulterazione ritmica e al sensazionalismo fotografico. Lassenza
di questi eccessi in American Gangster definisce da
subito latteggiamento differente di questultima prova. La
più convincente da almeno dieci anni. Scott abbandona in prima battuta il rifulgente, abbacinante e contemporaneo tratto luministico di John Mathieson e Slawomir Idziak affidandosi alla saggezza contrasta, ma altrettanto potente, di Harris Savides. Anche al collaboratore di lunga data Pietro Scalia, Scott requisisce stavolta il permesso per un montaggio irregolare. Lui stesso rinuncia allabusata soluzione di ripresa con otturatore variabile, responsabile degli acceleramenti di cui è indubbiamente stato tra i più convinti trendsetter. Autoregolamentazioni che poco hanno a che vedere con unarida concezione del testo o con una stanchezza di stile, ma stillano anzi da una finalmente coscienziosa commisurazione della rappresentazione con il materiale narrativo. La fondamentale sceneggiatura (da un articolo di Mark Jacobson) di uneccellente Steven Zaillian - un concentrato squisitamente misurato dellumanesimo gangsteristico per il grande schermo - dipana lenfasi insistita caratteristica di molte opere scottiana - tracimante alle volte nel becero didascalismo - elevandola ad una concentrazione drammaturgia che si articola lentamente in tappe risolutive, definendo un procedimento a scansione parallela capace di crescere silenziosamente e coinvolgere più di un combattimento nellarena o di una breccia nella roccaforte. E la sensazione che nel film interpretato con abbondante dovizia da Denzel Washington e Russell Crowe la messa in quadro e in serie dipendano principalmente dalla storia, si fa certezza quando il ritmo accenna addirittura a richiami coppoliani (il blocco precedente larresto di Washington, con un cutting alternato che inframmezza liturgia e azione regolatrice). Facile invero scorgere in simili soluzioni labbandono al richiamo ammaliante del cliché di genere, salvo poi certificare lassoluta funzionalità del derivatismo in unarchitettura discorsiva tanto calibrata da rendere la citazione una chiave di volta quasi inevitabile - e quindi ben lecita. Lostentata e sovente egocentrica retorica dellestetica finalmente scalzata dalla retorica del racconto. Tale simpone insomma il peso specifico dello script da far apparire la messa in scena di Scott mai prima dora così dipendente e stabile, almeno in tempi recenti. Il vero fulcro del film, le caratterizzazioni e le dinamiche di sviluppo dei due protagonisti, segnalano esemplarmente come il soggetto offra già da sé i binari di regia su cui instradare il regime e il respiro della rappresentazione. Frank Lucas (Washington) e Richie Roberts (Crowe) non si cercano deliberatamente, non si braccano esplicitamente: il loro è un gioco al gatto e al topo involontario, non dichiarato, se non programmaticamente nelle aspirazioni opposte. Luno boss della droga con unidea familiare del business, laltro detective serpichiano dai ligi valori e dalla famiglia disastrata. Due duellanti inconsapevoli, che si affrontano in una battaglia fuori campo che lì resterà relegata anche nel momento del faccia a faccia, iniziatore di unintesa collaborativa. Eppure, ed ecco il potere automatizzante della sceneggiatura di Zaillian sulla scrittura registica, il film non perde mai solidità, cresce alimentato dalla convergenza di identità parallele che nel frattempo definiscono due studi caratteriali decisamente autonomi e appaganti. Linaspettato scacco matto finale che letteralmente rende tale lintreccio, palesa lunica svolta comune ai due personaggi compensandoli reciprocamente, compiendone gli itinerari e legittimando retroattivamente limportanza di un trattamento narrativo duplice e distanziato. Lenfasi giocata al ribasso che premia più del clamore high-concept. Resta il dubbio sulla corretta lettura della pellicola nel contesto filmografico del regista inglese: una nuova maniera - magari quella del ritorno allequilibrio formale, misura che già nella sua prima stagione cinematografica lo aveva portato a vette di storica efficacia - o un ulteriore incursione in un territorio finora non coperto, come farebbe pensare la definizione di genere palesata nel titolo? |