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A quanto pare certe cose non sono
fatte per succedere sulla Terra. Sicuramente il sottoscritto non è
stato l’unico, da ragazzino, a vagheggiare l’arrivo (cinematografico?)
di Alien sul nostro pianeta, eppure, col passare del tempo e dei sequel,
ognuno coi suoi significativi e caratteristici apporti, è diventato
sempre più chiaro che, per quanto ineffabile, c’era qualcosa
nella fisionomia del mostro che sembrava farlo funzionare al meglio
in contesti quanto più possibile non familiari, lontani anni
luce - letteralmente - dal nostro quotidiano. Gli esordienti fratelli
Strause, un glorioso passato nel mondo della pubblicità e soprattutto
degli effetti speciali, fanno con questo sequel di tutti i sequel il
primo passo nella regia cinematografica, e si assumono di diritto la
responsabilità di aver infranto la regola implicita di ogni film
con gli alieni senza occhi e con due bocche. Sarebbe facile usarli da subito come capro espiatorio, giacchè AVP2 è quello che denuncia già nel suo bislacco titolo: un patchwork di elementi standard presi qui e là da ogni fonte, con una sospetta tendenza alle soluzioni visive da b-movie senz’anima, al limite della peggiore exploitation. Uno scontro tra sequel, né più né meno. Però c’è poco da sparare - solo - sul regista, visto che la sceneggiatura (Shane Salerno, Armageddon) o la produzione (David Giler e Walter Hill, entrambi papà di Alien) non sembrano nel complesso fornire alcuna attenuante al giudizio finale, che dal nostro umile punto di vista si attesta su mediocre. Già la prima sequenza si srotola noiosa e frettolosa, giocandosi a freddo un jolly importante che - Scott insegnava - doveva essere caricato a dovere sia come tensione drammatica che come impatto visivo, e cioè la nascita del piccolo xenomorfo che esplode fuori da un torace umano: in AVP2 ne contiamo due nei primi dieci minuti. Un pessimo servizio reso all’immagine dell’alieno. Non vanno meglio le cose per il predatore, attirato anche lui da qualche parte nei pressi del Montana (?) per ripulire i disastri combinati dal mostro - non che sia chiarissimo il motivo, ma tant’è. Il capolavoro creato da Stan Winston, infatti, quella creatura con la faccia da granchio e i capelli rasta, era stata capace nel lontano 1987 di affascinare milioni di spettatori anche per la sua natura di perfetto cacciatore, capace di combinare tecnologia e ferocia in un mix inedito di assoluta capacità predatoria: era silenzioso, invisibile e letale, una specie di ninja venuto dallo spazio. Al ventesimo minuto invece la pellicola degli Strause ci elargisce un’altra chicca che sconfessa l’icona di cui sopra, quando un poliziotto spaurito e del tutto ignaro si imbatte nel predatore che sta sciogliendo con l’acido blu le vittime dell’alieno. Il povero Dutch (Schwarzenegger) vent’anni prima aveva impiegato tre quarti di film solo per riuscire a vederlo. In realtà entrambi i teratomorfi hanno subito nel corso del film svilimenti e tradimenti in varie guise, a partire, lo si accennava in apertura, dall’ambientazione montanara che crea una sensazione di fastidiosa decontestualizzazione, e dal set up da teen horror, coi protagonisti umani (con cui noi dovremmo empatizzare) presentati con dialoghi e situazioni che non avrebbero dato nell’occhio in un eventuale Scream 5. Così i fratelli Strause alla loro opera prima possono già dire di essere entrati nella storia del cinema, avendo definitivamente sdoganato nel peggiore cinema di exploitation (xenoploitation?) due veri e propri idoli che nel corso degli anni avevano mantenuto comunque un certo tono e una certa serietà (ma l’idillio si era già incrinato col primo episodio versus…). Unica nota positiva? Il buzzurrissimo Predalien, ibrido tra le due specie, una sorta di xenomorfo coi dreadlocks capace di infettare da sé gli uomini con i suoi embrioni… no, mi arrendo: trovatele voi le note positive, se ci riuscite. |