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Dawn of the living
dead, USA, 2004 di Zack Snyder, con Sarah Polley, Ving Rhames, Jake Weber, Mekhi Phifer "Strappare alla morte" è un'espressione dalla valenza positiva che indica il salvataggio estremo della vita di una persona. Ne l'Alba dei morti viventi gli esseri umani vengono lacerati, più che strappati, dalla morte, per tornare a muoversi come e più agilmente dei viventi, ma con il solo scopo di divorare e contagiare con la non-morte ogni essere umano. La resurrezione della carne, ma non della mente, è improvvisa e letale, spiazzante, scomposta, implacabile. Forse una punizione divina, forse una punizione naturale, forse la semplice ipersaturazione della popolazione "semplicemente" morta che caccia a pedate dalla sala d'aspetto del limbo chi attende il riposo eterno. Non c'è più posto all'inferno, e l'inferno rigetta, rivomita la carne morta riportando i vivi - con un movimento che tende alla chiusura circolare dell'esperienza umana - ad uno status primordiale, ad una lotta per la sopravvivenza pura e letterale, una lotta dei vivi contro la morte. I morti del regista Zack Snyder vengono ripresi dal segnale digitale e sovrabbondante di media e videocamere e restituiti nella loro più pura, adrenalinica brutalità, accostando (ancora una volta) gli scenari di rivolta apocalittica creata dal panico post-resurrezione con quelli reali di filmati d'archivio di scontri di strada di provenienza più disparata (come notato dagli utenti di indymedia.org, nel film appaiono di sfuggita anche alcune immagini girate duranti i disordini del G8 di Genova). L'unico sentimento evidente rimasto ai morti è la rabbia, forse quella di risvegliarsi non più vivi, in putrefazione, senza passato e senza futuro, senza senso e senza meta. Esattamente come i vivi sopravvissuti, che hanno l'unico vantaggio di non dover soffrire della puzza della loro stessa decomposizione. I morti risorti gridano l'orrore della loro inutilità e di quella della loro carne, muovendosi freneticamente e ciecamente. I vivi superstiti difendono strenuamente l'orrore di un'esistenza da sopravvissuti reietti di una razza in estinzione, dove i neonati possono venire alla luce non solo morti, ma già addirittura zombie e per cui, quindi, non c'è più alcuna compassione. "No human compassion": riecheggiano qui le parole del grottesco nichilismo ironico dello Snake Plissken di 1997 Fuga da New York (del John Carpenter che avrebbe poi trattato con compiutezza la rabbia dei non-morti in Fantasmi da Marte), ora completabile con un "neither dead, undead or unborn", nessuna compassione umana, ma neanche per i morti, i non morti o i mai nati. L'orrore e la violenza iperrealistici de l'Alba dei morti viventi fanno dunque del film un remake e un sequel: remake testosteronico ed efficace dell'epocale sforzo romeriano (Zombie, 1978), e un instant-sequel apocrifo de la Passione di Cristo di Mel Gibson, tour-de-force exploitation-splatter (ben più violento e sadico del film di Snyder) che altrimenti mancherebbe di un'adeguata conclusione. La parabola di Cristo non si chiude certo con la morte del redentore, che termina solo il secondo atto della vita del nazareno. Il terzo atto apre con lo sconforto e il dolore dei discepoli, e dopo la resurrezione (nel film di Gibson aspetto estremamente marginale a confronto con la via crucis gore che occupa la gran parte della storia) culmina nel climax dell'assunzione in cielo. Oppure no? Oppure Cristo non è che un mitomane, l'ultima goccia che fa traboccare il vaso di Pandora dei morti col suo carico spirituale di aspettative accumulate in un unica, pesantissima morte supersignificante, che invece porta direttamente non alla salvezza o alla redenzione, ma all'Apocalisse. Che poi, secondo la Bibbia, è il definitivo atto divino, il redde rationem che chiude i conti fra il creatore e le creature. Non strappato alla morte, ma rigettato in una tomba di carne oscenamente attiva. Dunque la Resurrezione generata da una Passione di sofferenza inumana a sorpresa non porta alla redenzione ma coincide con l'Apocalisse, in un corto circuito improvviso, letale, spiazzante, scomposto, implacabile. L'orrore del dolore che si sublima nel sacrificio questa volta partorisce solo altra morte, altro orrore, altra pena, proiettando un'agghiacciante impossibilità di salvezza, un'irrecuperabile vuoto di senso e un definitivo, spaventoso messaggio di dolore eterno che solo la potenza del Racconto può illuderci di esorcizzare. |