Abbasso l'amore
La commedia in pensione
di Stefano Finesi

 
  Down with Love, Usa, 2003
di Peyton Reed, con Renée Zellweger, Ewan McGregor, Sarah Paulson


C’è qualcosa che non funziona in due recenti commedie americane di successo, Abbasso l’amore e Tutto può succedere, qualcosa che va al di là dei pur vistosi difetti di scrittura, di casting, di tempi registici. È una sorta di tangibile vecchiaia delle forme e dei corpi, un’aria di disfacimento che permea lo schermo e distrae continuamente da quello che vi scorre sopra, senza che comunque il distacco si trasformi in qualcosa di significativo. L’anzianità incombente dei corpi di Nicholson e della Keaton immalinconisce, poiché, malgrado stia lì proprio a raccontare il tema centrale del film, fa perdere reattività e smalto allo stesso, si deposita non solo sui personaggi ma sugli attori, deprimendone il potenziale comunicativo; tanto più che a farle da contraltare è la bellezza ostentata e fin troppo levigata di Keanu Reeves e di uno stuolo di rilucenti paramodelle. È come se nelle tenaglie del viagra e della menopausa non si dibattessero solo Harry e Erica ma anche Jack e Diane, pure loro impegnati a misurarsi regolarmente la pressione nella scalata di una troppo pimpante screwball comedy, e in questa confusione di ruoli Tutto può succedere non riesca mai ad essere pienamente coinvolgente, a vincere l’attrito di corpi imbolsiti e gigioni che forse solo una regia veramente di livello riuscirebbe nel miracolo di far levitare.
Un discorso simile può valere anche per Abbasso l’amore, se spostato però alla messa in gioco di vecchi standard della commedia dei sessi. Il film mostra una confezione sicuramente piacevole, ma resta fermo a un’opera di riesumazione degli anni sessanta che non possiede il demenziale spirito iconoclasta della saga di Austin Powers, né l’appassionato e sensibile scrupolo filologico di Prova a prendermi: all’interno della sagra del kitsch d’epoca, le schermaglie amorose dei due protagonisti assecondano consapevolmente gli arrotondati moduli hollywoodiani di quegli anni, rinunciando però sia a un’adesione completa (difficilissima, ma intrigante), sia a una rilettura pienamente sopra le righe (più facile, ma comunque accettabile). Ad essere vecchi e poco funzionanti, quindi, non sono dialoghi e situazioni, quanto piuttosto l’assunzione che se ne fa, incapace di rendere realmente produttivo lo scarto del punto di vista generato dagli anni (allo scopo di un più penetrante discorso sull’onnipotenza dei media, ad esempio) e incapace al tempo stesso di vivificarli in sé con uno sforzo artigianale sicuramente al di sopra delle possibilità del film. Che dire, allora, di sequenze come il numero musicale di chiusura, ad opera di due attori di già provata esperienza canora (Chicago per la Zellweger, Moulin Rouge per McGregor), ma di fronte alla quale si resta attoniti nel cercare di capire dove finisca il cattivo mestiere e cominci l’ironia?
La leggenda vuole che Billy Wilder abbia fatto rigirare a Jack Lemmon una scena perché troppo lunga di due secondi: se la commedia, più di ogni altro genere, è l’arte del tempo perfetto, anche l’anagrafe, dei corpi come delle forme, andrebbe soppesata con meno indulgenza.