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Moulin Rouge!,
Australia / Usa, 2001
di Bazz Luhrman, con Nicole Kidman, Ewan McGregor,
John Leguizamo, Jim Broadbent
L'encomiabile coerenza con cui la squadra Luhrman traina dall'inizio
alla fine questo musical fiabesco ricalcandolo sulla sagoma robusta
dei capolavori dei tempi d'oro (e che, trasversalmente, in molti, di
recente, hanno rivisitato e riproposto) sembra il frutto di una esplicita
ricerca filologica del modello base, su cui innestare l'esteso patrimonio
pop degli ultimi sessant'anni di storia della musica con il sussidio
fedele delle magie informatiche.
L'immediata imposizione allo spettatore di una completa deriva tra le
fauci del posticcio chiarisce gli intenti; lo svolgimento, poi, conforme
alle regole pattuite, è un tuffo in apnea alla ricerca di una
mini opera totale in cui teatro, musica, cinema e danza si corteggiano
e si palpano in un coito (im)modesto. Un'orgia di ambizioni e superbe
aspirazioni a cui partecipano altri accoppiamenti confluenti e promiscui.
Il rincorrersi a perdifiato tra la storia "del" film e la
storia "nel" film, ad esempio, puzza di Shakespeare in
Love lontano un miglio e il prefinale che più brechtiano
non si può è il fiore all'occhiello di un amplesso variopinto
e esagitato che, a parte qualche flessione, non smarrisce mai il senso
del progetto teso a raggiungere il traguardo senza tralasciare nessuna
tappa. Ne sia prova la giustamente barocca e stucchevole tragedia finale
che si conclude con la morte dell'innamorata Kidman tra le braccia del
canterino McGregor: plongee di congedo e sguardo piangente al cielo,
sotto l'occhio digitale affetto da un cronico nistagmo.
L'impatto generale riassume forse l'intenzione di Luhrmann di riecheggiare
l'effetto visivo e sonoro che il celebre locale parigino ebbe sui suoi
eterogenei visitatori; l'uso sfrenato e accecante dell'elettricità
all'epoca, strizza l'occhio agli effetti speciali e agli zoom ingoiati
ed ingoianti di Moulin Rouge.
Nel turbinio di corpi agiti a trecentosessantagradi spicca quello di
Toulose-Lautrec (l'eccellente John Leguizamo), il capocoro freak della
vicenda, occhialuto e malinconico clown boehemienne che catalizza la
visione e che in virtù della sua frenata mobilità, si
offre come figura che racconta, rallenta e fa da perno all'esaltazione
circense della messa in scena.
A coronare l'espansione dell'artificio ecco poi l'elemento imprescindibile:
il canto. Gli acuti improbabili e un pò stonati di McGregor e
compagni sono la punta dell'iceberg di un sovraccarico di energia che
sfocia nelle ridondanti dichiarazioni d'amore e nello sfogo strillato
dei cuori in ambasce per una passione ostacolata dal duca cattivo.
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