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21 Grams,
Usa, 2003, di Alejandro Gonzales Inarritu, con Sean Penn, Benicio del Toro, Naomi Watts, Charlotte Gainsbourg. Sequenze brevi e disordinate di varie esistenze che si incastrano senza unità temporale. È questa la prima, straniante suggestione che si avverte entrando nel gioco di 21 Grams, il secondo lungometraggio del messicano Inarritu. Lo sceneggiatore Guglielmo Arriaga (lo stesso di Amores Perros) già in fase di scrittura muove i fili, forza i tempi narrativi contorcendo la mente dello spettatore con continui flashback e flashforward, costringendolo a uno sforzo: riuscire a capire che cosa sta succedendo e a chi. Intrappolando i personaggi in dinamiche un po' troppo rigide, costruisce un racconto che non ci assomiglia, che non è credibile. La trama srotolata a mente fredda è, a tutti gli effetti, un polpettone melanconico che traccia solo superficialmente le linee dell'angoscia provocate da una perdita o dal senso di colpa. I tre antieroi, segnati da una debolezza fisica e psicologica che li rende fragili di fronte alle asperità della vita, diventano eroi in un processo di maturazione all'insegna del motto "la vita continua". Davvero poco originale e non all'altezza dell'assunto iniziale. Il presente e il passato non si raccordano in un fluire consecutivo e non hanno più uno spazio vitale delimitato: intessono un unico destino doloroso che lavora per far incrociare tre famiglie in un momento fatale. L'incidente automobilistico ritorna nell'immaginario dello sceneggiatore e del regista come elemento scatenante di un fato avverso intorno a cui si snodano gli eventi: se in Amores Perros era servito da pretesto per raccontare di un mondo dilaniato dalla violenza, qui assume il compito di prova del fuoco per i personaggi, impreparati a vivere. L'alcol, le droghe, la religione ossessiva e bacchettona di un infervorato e bravissimo Benicio del Toro (Jack) e della Watts (Cristina), ancora acerba e poco in parte, sembrano rappresentare un passaggio obbligato, sempre lo stesso, per trovare una propria identità individuale, o superare il dolore. Sean Penn (Paul), premiato dalla coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, è l'affascinante e sensuale depositario della metafora dell'anima, forse riposta nel cuore. E un trapianto di cuore fa il miracolo: quello di costruire la sua nuova vita interiore, tracciare un nuovo percorso, regalargli un'altra chance. L'unica vera prova di coraggio della trama è rappresentata dalla ricerca della verità che i personaggi tentano: Jack pretende una specie di rivelazione divina da parte di un Dio modellato come scudo delle sue debolezze, Paul insegue l'esistenza del suo donatore. Ma Inarritu si fa scappare quest'ultima occasione. Anche quest'unico brandello di forza narrativa è risucchiato dalla banalità di un finale sentimentale. Nonostante ciò, rimangono numerosi i meriti registici e fotografici del film. A partire dalla musica, semplice e delicata e dalla scelta dei silenzi, che esaltano la bella fotografia in cui si riconosce il tocco di Rodrigo Prieto. Già direttore della fotografia di Amores Perros, Prieto riesce ad accentuare mirabilmente la drammaticità degli eventi sporcando le immagini e quindi sostenendo l'effetto del montaggio, a tutto vantaggio dell'originalità strutturale. Inoltre l'uso della macchina a mano fa riemergere il lato meno formale di questo regista, nonostante tutto, promettente e dotato. Inarritu ci riprova, tentando un altro successo. Ma non basta costruire immagini forti per mostrare la vita dell'anima. Il messicano si fa affascinare dalle metafore, ma non le fa funzionare. Vede la vita come un percorso attraverso l'inferno per raggiungere la felicità. Una specie di via crucis penitente che ci costringe a portare con noi quei 21 grammi in più: il peso di una esistenza da scontare. È così che ci mostra la sua idea, retorica, di speranza e di redenzione: due stati d'animo che fondono insieme l'umano e il divino. Per questo i due temi a suo dire universali, insieme alla scelta mirata di un cast internazionale, appaiono come le giuste prerogative di una vittoria, insinuandoci il sospetto che la sceneggiatura disarticolata da un montaggio random, unica vera punta di diamante del film, debba essere definita da festival. Peraltro mancando il bersaglio. |