Gli italiani a Venezia 58
Poveri ma imbelli
di Ludovico Cosmo e Seth Boccia


Venezia 58 - 2001
  Passo!
Cominciamo con una metafora da quattro soldi. Di quelle che non comprerebbe nemmeno un rigattiere. Se il cinema fosse un tavolo di poker, il regista italiano si rimirerebbe la propria doppia coppia e passerebbe al primo rilancio. Non solo. Nemmeno sullo slancio provocato dall'ebbrezza di un piatto vinto o di un bicchiere scolato si azzarderebbe ad un coraggioso "buio". Il bluff? Interessante... ma solo se qualche genietto della lampada o del marketing fosse in grado di assicurare la vittoria al botteghino o la conquista di un mellifluo nastro d'argento. La visione di alcune opere nazionali al recente festival veneziano ha alimentato il senso di rassegnazione sulla monocromia che affligge i nostri autori, diciamo "medi", mai sufficientemente criticati e mai, nemmeno un po', magari solo un po', umili.

Troppe presenze, poche assenze

Che cosa manca al cinema italiano? Davvero non ve ne siete mai accorti? Manca la forza di gravità di ciò che non si vede; la pressione di un maledettissimo fuoricampo che impedisca ai personaggi di sembrare cartoline illustrate penzolanti in qualche laboratorio. Manca il buon gusto di non salire sul carro dei protetti e dei raccomandati, si chiamino Muccino o Moretti e sfruttarli come traino per accaparrarsi inutili consensi. Manca una scuola che una volta analizzati, ammirati e spippettati i grandi del nostro passato, li riponga nell'armadio e li ri-ricopra di polvere. Manca il talento per trasformare il bruco-soggettino in una farfalla-sceneggiatura che non arrivi col fiatone e le gambe molli a metà del percorso. E manca tanto altro ancora.

Vengo dopo il tiggì
Il peggior modo di dichiararsi sconfitti davanti ad un avversario è fotocopiarne l'essenza, trasferirsi in esso calcandone il linguaggio. Il processo di omologazione del prodotto televisivo sul piccolo schermo del nostro salotto è preoccupante per la sua apparente irreversibilità. Ci aspettano anni di fiction. Ve lo diciamo apertamente per quanti di voi ancora non ne fossero al corrente. E su questo punto, da queste pagine avremmo anche poco da obiettare, preferendo infuriarci nel privato della nostra stanza. Il punto cruciale è che il cinema italiano si sta abbandonando alla medietà (parola brutta, significato abominevole) che come una piovra stringe tra i suoi tentacoli l'interpretazione dei nostri attori, la messa in scena in tutte le sue componenti, e addirittura i presupposti stessi di produzione di un film. Le vite sconnesse e rassegnate dei protagonisti di Luce dei miei occhi di Piccioni, il disagevole senso di non appartenenza che ha colpito Antonio e Maria (due immeritate Coppe Volpi) sprofonda nello spaesamento della regia che invece di aggredire, di accelerare, di urtare, finisce per adagiarsi sul solito sguardo rachitico all'interno del proprio orticello. Il film assume gradualmente i ritmi di uno sceneggiato a puntate; si ammala di uno strisciante malessere contratto in qualche talk show. Non mancano, ovviamente, i film dossier, opere generate (e per questo non create) ad immagine e somiglianza di reportage predibattito. Figli di Marco Bechis è una produzione italo-argentina che rincorre il suo obiettivo: la denuncia. Ma lo fa senza mai scavare, giù giù dove fa più male, la personalità stravolta dei due fratelli cresciuti nella disonestà dei loro finti padri. Bechis si guarda bene dal provare ad essere perturbante, quando la materia a disposizione lo avrebbe meritato: non è sufficientemente tormentoso per l'anima scoprire di essersi costruita nel più totale inganno, essere stata forgiata dagli assassini dei veri genitori? La bellissima sequenza dei tamburi nel finale, spiati dalle finestre dei palazzi e immersi in una luce morente non salvano un film privo di pulsioni, di irregolarità dello spirito.

La doppia vita del melò
E' quasi un peccato che un film come L'uomo in più (la storia di due omonimi perdenti napoletani, uno calciatore, l'altro cantautore) in cui si nota un'attenzione superiore alla media -ma non sufficiente- per fotografia, regia e sceneggiatura, naufraghi miseramente nel ridicolo involontario. Paradigma preciso della definizione di trash così come la intende Tommaso Labranca ("Andy Warhol era un coatto", Castelvecchi 1994), il film è in realtà il racconto della tragica aspirazione mancata del regista Paolo Sorrentino ad essere Kieslowski, Fassbinder o un qualsiasi altro grande del melodramma, imprigionato dallo stesso tono sopra le righe che adotta, uno stile che non riesce mai a trasfigurarsi (come invece vorrebbe) in qualcosa di veramente tragico e intenso. L'uomo in più comincia come un film di James Cameron (luci che bucano un'atmosfera densa e scura), continua come una canzone di Mino Reitano (gente semplice ma onesta e/o sulla cattiva strada) e finisce come un film di Mario Merola, con Toni Servillo (nei panni del cantautore cocainomane) che cucina il pesce ai compagni di cella, i quali finiscono per applaudire il suo operato di cuoco. Fuori il golfo di Napoli.

A volte ritornano
L'intensità sobria con cui Marra, in Tornando a casa, descrive un gruppo di pescatori, orfani del proprio mare e condannati ad una deriva esistenziale, possiede un vigore rispettabilissimo che però dopo un incipit brusco si stempera in uno sguardo troppo cristallino che si separa dai suoi emarginati, espulsi dalla propria terra e dal film. Resta in prossimità solamente di uno, il più giovane che ancora sogna l'america...(bah!) e cerca un difficile riscatto nel cambio d'identità. Ma oltre a questo peccatuccio di inesperienza, tutt'altro che episodico e nazionale, il torto involontario di Marra è un altro: quello di essere stato decantato da qualche babbione come il nuovo De Sica. Come se ce ne fosse bisogno. Il cinema italiano non ha bisogno affatto di un nuovo De Sica; ogni attestazione di stima verso chi ancora si impiastra di neorealismo è un passo in un vicolo cieco; equivale a ficcare i piedi nelle pantofole e inchiodarsi col culo sulla poltrona. Perché il panorama artistico italiano non è così variegato da potersi permettere un improbabile revival estetico del nostro periodo più straparlato. Attendere al varco un nuovo De Sica corrisponde alla rinuncia di un cinema nazionale che finalmente abbia il fegato di affrontare quei temi, quei colori, quegli eccessi ormai decompostisi nella cambusa dell'immaginario. Stesso discorso per coloro che, trascinandosi ancora le spadrillas nello zainetto si ostinano ad imitare gli stilemi di Moretti. Uno basta. E avanza. Il cinema italiano non ha più miti. Ha smarrito le maschere, ha impastato il tragico, il melodramma e il comico tra le grinfie del buonismo, in quel luogo ameno dove tutto si cicatrizza. Perché nel cinema italiano, quasi nella sua totalità, tutto deve rientrare nei bordi. Sempre. Non esistono fratture, nè brutture. Tanto che l'identikit della nazione risulta privo di mostri e persino di gioielli, del fecondo fuoco della follia, barattato con fette untuose di moralismo. Ne sia un esempio l'accecante presunzione di Maderna e del suo L'amore imperfetto che ruota attorno ad un inventato fatto di cronaca che vorrebbe solleticare le coscienze dell'opinione pubblica senza un minimo di rispetto e di dignità.

Spacciatori di tutto il mondo, unitevi!

E allora lanciamo un appello ai cineasti nazional-popolari: drogatevi! Di assenze, di suggestioni, di baldracco trash, di uno sguardo che scavi con il piccone e non gratti con le unghie, di erotismo malato, di comicità studiata, di eccesso, di scrupolo, di credibilità. E che consideriate la stramaledettissima fotografia come una componente basilare dell'arte cinematografica; che vi dimentichiate di concedere interviste dopo aver girato due corti e un film applaudito dai vostri parenti; che vi ricordiate che esistono anche gli antagonisti e che vanno tratteggiati con lo stesso spessore di chi va in cima ai credits; che vi conviene esimervi dal pescare gli attori dall'infetto mondo della fiction e della pubblicità. Che si può provare a fare qualcosa di diverso. E che non siete nessuno finché non lo diventate.