Venezia 57 - 2000

La Mostra in pillole
a cura della Redazione

 
  ^ Seom di Kim Ki-Duk

Seom - L'isola
di Kim Ki-Duk

Un lago-bordello sospeso nel tempo e nello spazio, ma anche un rifugio infernale per abietti e ricercati. L’amore estremo, muto, cruento tra un assassino e Hee-Jin, la traghettatrice dell’isola: una donna-pesce dolce e demoniaca. E poi un senso di morte e di erotismo asfissianti, sanguinolenti. Un film sorprendente, anche nella sua comicità involontaria: cibo indispensabile per l’imborghesito sguardo occidentale.

Grazie per la cioccolata
di Claude Chabrol

Nel pantheon dei cine-nonni di questa Venezia un posto d’onore va a Chabrol e alla sua inalterata capacità di spandere veleno tra insospettabili pareti domestiche. Il veleno in questione si nasconde nientemeno che nella cioccolata servita ogni sera da un’amorevole madre di famiglia al figliastro e al marito musicista: suspence sottile ma sempre alta, recitazione idem, una possibile lettura politica (la multinazionale patrocina e avvelena l’arte, salvata all’ultimo momento da un giovane talento), un pizzico di Hitch quanto basta. Vergogna per gli pseudocinefili fuggiti in massa dalla sala al solo comparire di un titolo di coda, mentre il film continuava per altri cinque minuti buoni.

Otesanek
di Jan Svankmajer

Inizio folgorante, con neonati che sbucano dappertutto: il pescivendolo li pesca dalla vasca dei pesci, e se spacchi un’anguria dentro ci trovi un pargolo! Peccato che lei non possa averne, e così il marito (un Buster Keaton mezzo cieco) le regala un bel tronco da coccolare. Ma se il piccolo tronchetto poi diventa un bel troncone mangia-uomini? Per quest’opera neo-surrealista abbiamo lo Svankmajer d.o.c., semplice e pungente come nei suoi migliori cortometraggi. Uno spasso i quadretti con la famiglia a pranzo, tra pasti rubati per il mostro e primi dubbi sessuali...

Time and tide
di Tsui Hark

Per un John Woo che svuota un Mission: Impossible e ne fa un’elegante e personalissima danza, uno Tsui Hark che carica una narrazione fittissima col suo stile furioso e stordente, subissandoci di geniali invenzioni visive e ritmiche, avvolgendoci in una tempesta perfetta di azione e reazione in cui i personaggi si perdono. Anche lo spettatore si perde (felicemente), impossibilitato a seguire la narrazione, ma esce dall’esperienza confuso e felice come poche volte nella storia del cinema.

le Verità nascoste
di Robert Zemeckis

Lode alla versatilità di Zemeckis, che ci regala un horror figlio del miglior cinema classico hollywoodiano, aiutato anche da un grande cast tecnico (magnifiche fotografia e scenografia). Prendete il 6° senso, mescolatelo con i ritmi e le genialità del miglior Hitchcock, aggiungete infine una Michelle Pfeiffer in grande spolvero (era ora..). I dettagli inquietanti e le apparizioni della “fantasmina” sono davvero terrificanti, proprio perché arrivano quando te lo aspetti. La scena pre-finale nella vasca poi è un capolavoro di tensione sospesa. Peccato che la sceneggiatura poi mette molta carne al fuoco e poi perde alcune storie per strada. Il finale poi è il solito polpettone pirotecnico: ma perché gli americani insistono sempre a dilatare esageratamente la scena della resa dei conti? Si cerca forse di giustificare il budget del film?

Brother
di Takeshi Kitano

Beat Takeshi sbarca in America e costruisce una parabola criminale che strizza l'occhio direttamente agli stilemi del gangster-movie "made in Hollywood": ascesa, discesa e crollo del delinquente con un'anima, dei valori e una "famiglia" da proteggere e far prosperare. Il tutto, naturalmente, narrato come in un film di Kitano, dove il silenzio, la burla e la violenza improvvisa la fanno da padroni, e supportano l'ormai consolidato stile raffinato del regista. Un azzeccatissimo miscuglio tra Sonatine e il cugino giapponese di Tony Manero. Forse il grande autore inizia ad essere un po' manierato? Magari...

Platform
di Jia Zhang-Ke

La storia di una giovane compagnia teatrale attraverso gli anni ’80 e, in filigrana, quella di una Cina che si apre all’economia di mercato e all’influsso della cultura occidentale. Tale coincidenza tra quotidianità e passaggio epocale si realizza paradossalmente attraverso una narrazione spoglia di ogni possibile artificio retorico, abbandonata ai suoi tempi morti, ai nodi irrisolti e, soprattutto, a una cinepresa impassibile che procede per lunghissimi pianosequenza e non elargisce un solo primo piano. Impercettibilmente, silenzio dopo silenzio, gesto dopo gesto, la storia sedimenta nella vita di ognuno.

the Cell - La cellula
di Tarsem

Se è ancora possibile parlare di visionarietà della messa in scena cinematografica, vale la pena di spendere questo termine per il film di Tarsem. Mascherato da routinario thriller estremo, the Cell è in realtà un riuscitissimo trip visivo, un’esperienza da assorbire con l’attitudine e l’abbandono ipnotico con cui si sceglie l’emozione delle montagne russe. Sostenutissimo e senza cedimenti (a parte l’apparizione - perdonabile - di una Jennifer Lopez pseudo madonnina cattolica), il film si fregia di un’inquietante raffinatezza visiva poco esplorata nelle sue potenzialità cinematografiche, che riesce incredibilmente a stupire.

Felicidades
di Lucho Bender

Buenos Aires, notte di Natale. L’itinerario di tre personaggi, ognuno con un dono per una persona amata, è stravolto dall’incontro con altrettanti individui emarginati: un cabarettista squattrinato, un paraplegico, un vecchio; tre miserabili costretti, anche nella notte santa, a subire l’ennesimo abbandono, a soffrire per la propria diversità o persino a morire. E colpevoli di tale supplizio, sono proprio i “magi borghesi” che, involontariamente egoisti, riconquistano la retta via, ovvero si lasciano reinghiottire dalla normalità. Un film splendido, dagli echi Dickensiani ma maculati di grottesco, di una torva e stralunata allegoria.

il Fantasma
di João Pedro Rodrigues

Picco assoluto di una categoria ampiamente esplorata in questa Venezia, quella del disgusto fisico, ma anche, e proprio in virtù di questo, capolavoro che come pochi rende tangibile disperazione e solitudine. Il sesso, vissuto all’estremo dal protagonista, è puro meccanismo, lo stesso che anima gli oggetti che terminano il loro ciclo finendo nella discarica: Sergio, anche attraverso un estenuante feticismo, è assimilato a un oggetto e al suo cieco e inconsapevole funzionamento, per cui il suo destino non può essere che la discarica dove avviene il lungo vagabondaggio finale. Oscuro, deprimente, estremo: assolutamente necessario.

il Giorno in cui sono diventata donna
di Marzieh Meshkini

Tre episodi, tre età, tre diverse situazioni in cui l’universo femminile si esplica nella civiltà e cultura islamica. L’ultimo mattino di libertà di una bambina, prima di venire rinchiusa nella condizione carceraria dell’essere donna. Il tentativo fallito di una giovane di fuggire dagli uomini sopra il “cavallo sacrilego”, la bicicletta. La trovata indipendenza di un’anziana signora che sceglie di spendere tutti i suoi soldi e godersi la vita. Bel film della Meshkini, moglie di Makhmalbaf (e si vede...): tanto i primi due episodi sono feroci, impassibili, accusatori nella loro asciuttezza, tanto il terzo è spassoso, delicato, quasi goliardico. Stupenda, alla fine, la casa ammobiliata allestita sulla spiaggia e poi trasportata sulla nave sopra i barili galleggianti.

Memento
di Christopher Nolan

Immaginate di non poter più ricordare gli accadimenti degli ultimi dieci minuti della vostra vita. Ricordate tutto il vostro passato, ma da un dato momento in poi, ogni dieci minuti la vostra memoria si riazzera. Immaginate di dover vendicare in queste condizioni la morte di vostra moglie. Ora immaginate di dover fare un film tutto narrato con l’alterazione della percezione del mondo che questo stato patologico vi provoca, e avrete Memento. Una vicenda raccontata al contrario che costringe la mente ad uno sforzo cognitivo e riassuntivo, che trasforma la linea narrativa in uno psicotropo enigmista alteratore di coscienza. Da provare.

the Prime gig
di Gregory Mosher

In una squallida competizione tra pescecani, succede che uno grande ne ingoi uno piccolo. Nel laido e invasato mondo dei venditori, l’abile Penny Wise commette il grave errore di scindere la vita dal lavoro e, da carnefice, diventa vittima delle viscide tecniche dei suoi capi. Un imbroglio ben congegnato. Un preoccupante ritratto dei valori culturali degli anni novanta che ricorda il più teatrale e intenso Americani di Mamet.

Together
di Lukaas Moodysson

E bravo Moodysson, che non ha paura di scegliere storie piccole, quasi “timide”, e le narra con estrema gentilezza di tocco e di racconto. Dopo le due adolescenti innamorate del bel Fucking Amål ci si trasferisce in una comune svedese in pieni anni ‘70. Amori contrastati, ideali ed ideologie sostenuti con più o meno convinzione, mariti maneschi e distratti che si redimono, romanticismo sia “omo” che “etero”, bambini confusi dietro occhiali rotti (con lenti spesse come vetri anti-proiettile). Tutto il film è semplice, immediato, toccante, ottimamente recitato. E la partita di calcio finale, metafora a sostegno dell’uguaglianza, della democrazia e della forza dell’anarchia, lascia il segno.

Noites
di Cláudia Tomaz

Una Lisbona lugubre e arrugginita, fotografata con un convinto tratto documentaristico, osserva con indifferenza la travagliata quotidianità di due tossici per i quali il futuro è un sudicio buco nero. Joao e Teresa si aggrappano al presente con inerzia e un istinto di sopravvivenza disperato. Premio per “La settimana della critica”, forse un po’ eccessivo.

la Città è tranquilla
di Robert Guédiguian

Droga, prostituzione, prigione, tradimento, suicidio. Una realtà brutale soggiace nell’odierna Marsiglia; Guédiguian la estrapola e la mette in primo piano, intrecciando storie e personaggi. Ne risulta un estenuante (154 minuti!) dossier televisivo dominato da un qualunquismo peggiore e meno latente di quello che il regista francese intende denunciare. Il ricorso a un racconto di stampo naturalista è l’escamotage obsoleto di chi vuole tradurre la propria falsa indignazione in un sermone accusatorio che gira a vuoto dall’inizio alla fine.

Sud side stori
di Roberta Torre

Roberta Torre polverizza ogni record imboccando la strada della maniera già al secondo film: ritroviamo la galleria del kitsch, canzonette e tipi grotteschi, contaminazioni e straniamenti, ma senza mordente né reale capacità dissacratoria, pur fermo il rispetto per il disgusto ancora sollevabile da Little Tony e Mario Merola (nell’Italia post-Anima mia la comparsata anni ’60 è assolutamente necessaria) . Ma la cosa che fa accapponare la pelle è la presunzione di un dichiarato impegno sociale sui temi dell’immigrazione e dell’intolleranza, mentre in Tano da morire, almeno, la mafia rimaneva pretesto puramente ludico. Auspichiamo, per pure ragioni di permanenza in poltrona, il ritorno della regista al cortometraggio.

il Partigiano Johnny
di Guido Chiesa

Il cinema italiano pareva dissolto in scelte produttive ed estetiche dettate da un’improbabile autorialità da fiction televisiva. Guido Chiesa ci dimostra che, in realtà, si era solo dissolto. Più di due ore di regia senza senso, sceneggiatura insostenibile e insostenuta da una campionario di attori capeggiato dallo smarritissimo Stefano Dionisi. Non si può fare un’opera audiovisiva del genere, che in più ha la pretesa (che è poi la sua unica originalità) di fotografare con una certa esattezza storica la Resistenza italiana, scordandosi che gli spettatori devono poter simpatizzare per qualche personaggio, essere coinvolti in qualche situazione, seguire lo sviluppo di una qualche vicenda.

Freedom
di Sharunas Bartas

Bartas, il tronfio ingannatore. Bartas il finto iconoclasta, che si camuffa da profeta di un Cinema anti-convenzionale. Bartas il parassita che abbindola con furbizia e malafede. Bartas che ipnotizza i seguaci del cinema punitivo che troppo spesso coincide con bello; Bartas complice di questo meccanismo perverso; Bartas colpevole di immergere personaggi raminghi (sempre in silenzio!), in una natura fotografata e ripresa con un’ovvietà sconcertante.

la Principessa e il guerriero
di Tom Tykwer

Tykwer si era dimostrato divertito orchestratore di un originale cinema-game boy con Lola corre. Ora rinnega quasi tutte le armi impiegate per costruire il sostenuto ritmo cinematografico del film d’esordio, e ci propina un’infinita, mal scritta, mal recitata e sostanzialmente incomprensibile storia di un amore “pericoloso” (lui è rapinatore di banche, lei infermiera), immersa in un’ibrida e improbabile atmosfera pulp/patinata. Franka Potente corre un po’ all’inizio, poi tenta di recitare, ed è la fine.

Denti
di Gabriele Salvatores

Sciaguratamente piazzato in concorso, il film è la pietra tombale per un suicidio artistico annunciato: Salvatores dimostra definitivamente di aver perso ogni capacità di invenzione e di sincerità, per di più in nome di una confusione contrabbandata per sofferto diario interiore e che invece rimane semplicemente una collana di artifici. Artifici narrativi, come la voce off del protagonista, spudoratamente letteraria, e visivi, come l’effettismo fotografico che riuscirebbe ad abbindolare solo un 14enne mediamente incollato a Mtv.

My generation
di Barbara Kopple

Barbara Kopple, documentarista di rango, compone senza ritegno un panegirico di Michael Lang, organizzatore non solo del primo Woodstock, ma anche dei due mesti sequel anni ’90: quest’uomo, inevitabilmente sorridente e con gli stessi identici capelli di trent’anni fa, rivende alle nuove generazioni (senza risparmiare biglietti stratosferici, sponsor e gadget di ogni genere) un evento leggendario proprio in quanto più che mai lontano da tale logica commerciale e lo fa spacciandolo ancora per una manifestazione “contro”. I giovani, però, sia quelli ai concerti che quelli che applaudiscono in sala entusiasti, sembrano contenti: ve lo meritate, Michael Lang.

la Dea del '67
di Clara Law

Una ragazza cieca, tormentata da fantasmi incestuosi, e un giapponese, attraversano l’arido deserto australiano a bordo di un’idolatrata citroen. Un road movie sgangherato con una sceneggiatura raffazzonata e diretto con perizia spottistica. Gli squarci nel passato sono gratuiti e confusi. Il film è privo di filo logico e assomiglia a un libro pieno di errori di ortografia, dove le parole sono inserite a vanvera senza nessun criterio sintattico. Difficile appassionarsi.