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^ Appassionate,
di Tonino De Bernardi A fine della 56 Mostra del Cinema di Venezia lo stesso direttore Barbera ammetteva la necessità di una scelta che sarebbe stata radicale ma giusta: non selezionare alcun film italiano per il concorso. A una conclusione identica era già arrivato prima Tullio Kezich, che auspicava il gesto provocatorio come un segnale forte, severo, inequivocabile: non ci siamo, a questi livelli non riusciamo a essere competitivi. Lunanime fucilazione del cinema italiano a Venezia, in concorso e fuori, non è stata approntata solo da critici spocchiosi ma ha trovato puntuale conferma nella distribuzione in sale deserte, nei passaggi fantasma di film incapaci di stabilire un qualsiasi contatto con il pubblico. Preambolo intransigente Saltando a piè pari lannosa questione dei finanziamenti pubblici, che impesta periodicamente le pagine dei quotidiani in virtù di ovvie strumentalizzazioni politiche, è necessaria una riflessione sulla qualità delle pellicole di casa nostra, di cui Venezia ha offerto una selezione notevole permettendoci in più uno stretto confronto con il cinema di altri paesi. La scusa piagnucolante dei soldi che non girano, delle strutture carenti, della concorrenza scorretta e danarosa, sono un modo ricorrente di nascondere la testa sotto la sabbia e giustificare linadeguatezza estetica e commerciale del nostro cinema. Il problema è molto più semplice in realtà: in Italia non ci sono buone idee, nelle zucche dei nostri presunti registi non cè assolutamente nulla (se non forse la strenua e infondata convinzione di essere dei geni). Perdonate la diagnosi sbrigativa, che potrebbe sembrare superficiale in quanto non affiancata da elaborati profili sociologici, da approfonditi resoconti di mercato e giudiziose motivazioni storico-politiche. Fatto sta che negli altri paesi (ricchi o poveri che siano) si riescono a fare ottimi film con pochi soldi e nascono di tanto in tanto autori con uno stile e una personalità; in Italia questo semplicemente non succede e siamo stanchi di doverne cercare una ragione: meglio affermare serenamente che, fatta qualche rarissima eccezione, non esistono oggi buoni autori e buone idee, non esistono buoni sguardi, non esistono insomma persone che sappiano fare cinema. Non ci sono spiegazioni né giustificazioni. E questo purtroppo non vale solo per le distribuzioni consuete ma appare con evidenza anche nei circuiti sotterranei, in quanto perfino in un festival di videocorti gli italiani riescono generalmente a fare una figuraccia. Chi scrive non è in preda a un delirio solipsistico di antipatriottismo pregiudiziale: è la pratica del cinema italiano, di cui la rassegna veneziana è solo unultima tappa, ad avergli di volta in volta rinnovato questa sconsolata e forse arbitraria presa di coscienza, comunque condivisa da un considerevole numero di amanti (veri) del cinema (vero). Drammatici riscontri Passiamo ora rapidamente ai fatti. I film italiani presentati in concorso sono A domani di Zanasi, giovane autore alla seconda prova, e Appassionate di De Bernardi, navigato filmaker indipendente: in entrambi i casi una selezione fuori dalle righe che sembrava promettere (ahimé!) buone sorprese. Il primo è un piccolo film ben confezionato, anche piacevole a più riprese, ma di nessuna aspirazione, nella forma e nel contenuto, che possa giustificarne la presenza ad un festival, per di più in una categoria che sulla carta dovrebbe portare alla ribalta nuove tendenza e nuovi orizzonti; non è un caso che il film sia stato concepito inizialmente per la televisione, come parte di un ciclo di sei storie sulla provincia italiana, e della televisione gli resti incollata addosso la piattezza dello stile. Ma è con Appassionate che si può gridare davvero allo scandalo: una sconclusionata sequela di pezzi forti della napoletanità tra canzoni (a rotta di collo), scenate di gelosia e banalissimi scorci periferici; il regista De Bernardi, apprezzato alfiere del cinema dautore, firma una scontata e irritante vetrina di luoghi comuni, forse ad uso di stranieri ancora sensibili alle cartoline del bel paese. Ma stiamo solo allinizio. Se gettiamo un occhio alle altre sezioni cè veramente da rabbrividire, tanto più che troviamo molti autori giovani spesso al loro infelice esordio, nuove leve già evidentemente incapaci di risollevare il nostro cinema: Non con un bang, Autunno, Questo è il giardino, Come te nessuno mai. Dai primi due, ma in qualche misura anche dai secondi, è possibile accorgersi dellarrivo alla ribalta di storie di giovani studenti in crisi di svogliatezza, che per lo più non riescono a dare gli esami e litigano con mamma e papà in comodi salotti alto-borghesi. Se almeno in Come te nessuno mai letà dei protagonisti rende divertenti le idiosincrasie adolescenziali, preoccupa ritrovare questultime in film dove a restarne vittime sono quasi-trentenni che non sembrano avere altro da cui farsi turbare e sottopongono così agli incauti spettatori, contrabbandandoli per intensi dilemmi, i conflitti banali di chi probabilmente ha messo di rado il naso fuori dalla porta di casa (o dalle scuole di cinema). Ovviamente qualsiasi argomento può far lievitare un capolavoro, ma non serve aggiungere che in questi casi mancano lironia, limmaginazione, la profondità e lo stile necessari: la Di Majo, in Autunno, sciorina un repertorio di nevrosi allenian-morettiano ma riesce a renderlo insopportabile; Lamberti in Non con un bang fa chiudere il protagonista nella sua stanza perché non vuole dare lultimo esame alluniversità e gli sviluppi drammatici sono del tipo che il papà lo insegue intorno al tavolo della sala da pranzo Un po diverso il caso di Maderna, autore del più pretenzioso e contorto Questo è il giardino, per il quale, visti i silenzi e le annesse incomunicabilità, qualcuno ha scomodato pure Antonioni; noi preferiamo farlo riaccomodare e chiedere piuttosto come sia possibile che il film abbia accaparrato il premio come miglior opera prima, vista lagguerrita concorrenza internazionale. In quanto a pretenziosità però tocca far salire sul podio The Protagonists dellaltro triste esordiente Luca Guadagnino, sorta di meta-documentario su un fatto di cronaca londinese, con tanto di Tilda Swinton; a raschiare bene cè un sincero desiderio di emancipare il cinema italiano dalle forme consuete ma il risultato finale è comunque semicatastrofico. Stesso discorso per Guardami di Ferrario, in cui laudacia pornografica di molte scene dà uno scossone salutare al buonismo torpido del nostro cinema, ma alla fine non basta a giustificare un film confezionato in modo decisamente approssimativo, con pessimi attori e mancati tentativi di glamour visivo. Unultima segnalazione per il Leone doro al miglior torcicollo: Il dolce rumore della vita di Giuseppe Bertolucci obbliga lo spettatore a uninterminabile serie di inquadrature sghembe, costringendolo a contorcersi sulla poltrona. Tutto però è molto artistico. Conclusione Martin Scorsese con il documentario Il dolce cinema, presentato alla mostra come evento speciale di chiusura, ripercorre in tre ore la storia del cinema italiano dalle origini agli anni settanta, chiamando in causa Camerini, De Sica, Rossellini, Antonioni, Fellini, Visconti e via glorificando. Quando qualche audace epigono girerà Il dolce cinema 2, se la caverà con due puntate da dieci minuti? |