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Davide Ferrario, il regista di Tutti
giù per terra e Figli di Annibale,
campeggia nei nostri ricordi festivalieri assieme allo sguardo/calamita
che Elisabetta Cavallotti sfoggia nel manifesto di Guardami.
Dietro quegli occhi, un punto interrogativo. Ovvero una pellicola lanciata
consapevolmente (perché altrimenti esporsi di fronte alle forche
caudine della rassegna veneziana?) nel mare delle polemiche, più
o meno attinenti al cinema. Più che sindacare su tale scelta
artistica e di mercato, troviamo più appropriato ignorare il
più possibile il contesto rovente in cui il film è stato
presentato. Gli stessi media, usualmente, privilegiano grossolane semplificazioni
e rassicuranti confronti; per chi cerca forzatamente lo scandalo è
gioco facile mettere sullo stesso piatto della bilancia opere che conservano
ognuna una propria fisionomia .
Guardami non è Stanley Kubrick, e tantomeno
il famigerato Gojitmal (Lies), quindi lasciamo ad altri
il piacere di soffermarsi sulleros come filo conduttore della
mostra, con il conseguente livellamento di ogni discorso critico.
Continui tale gettonato argomento ad alimentare la peggiore retorica,
compresa quella scontata e stantia degli alti prelati con il vizio di
scrivere presenti al Lido, pesci fuor dacqua a disagio nel setacciare
film che non siano senza speranza e privi di spiritualità
.
Il cinema, naturalmente, si concede ed esprime altre libertà.
Cancelliamo dunque altrettanto liberamente questo velenoso e sterile
background, rispondendo alle nostre stesse perplessità in forma
quasi tautologica.
Guardami è semplicemente un film di Davide Ferrario,
teso a recuperare dal proprio passato cinematografico determinate cifre
stilistiche e tensioni emotive, sfacciatamente coperte da
un gusto della provocazione sostenuto a fatica e con esiti contraddittori.
Una svolta, o un passo falso?
Pur attendendo con ansia la direzione che prenderà la carriera
artistica del regista , non ci sentiamo di fare valutazioni in proposito.
Anche perché Guardami, lo ripetiamo, è
un film saturo di idee profonde ed originali, ma è anche un rebus
irrisolto, complicato dal passo incerto impresso alla storia dallautore
stesso. Davide Ferrario, unanima divisa in due. Da una parte il
sesso, esplicito, esibito senza remore, teorizzato nella filosofia spiccia
dei set del porno e dei suoi pittoreschi frequentatori. Dallaltra,
incredibilmente, spunta fuori lamore, lemergere o il riemergere
di rapporti affettivi che incidono profondamente nellequilibrio
emotivo della protagonista. Il film si colloca in questa frattura, traendone
benefici e generando dubbi.
Il primo dubbio, sostanziale, riguarda la rappresentazione del sesso.
Le scene esplicite che si sussegono non concedono nulla alla fantasia;
imbarazzanti nella loro banalità e meccanicità, dopo il
disagio iniziale comunicato allo spettatore, degradano sempre più
verso una evidente ridicolizzazione dei soggetti rappresentati. Tutto
contribuisce a questo effetto. Le battute volgari dei professionisti
coinvolti nelle riprese, le descrizioni tecniche delle pose
richieste agli attori, i provini, lansimare degli interpreti,
le inverosimili scenografie terribilmente kitsch.
Labilità registica di Ferrario isola i corpi e li rende
ancora meno appetibili in questo tourbillon di elementi cromatici psichedelici;
carrellate ravvicinate spiano il sudore sulla pelle, dettagli anatomici
esibiti come trofei.
Se vi è un processo di fascinazione, è indirizzato istintivamente
sui colori accesi, sugli arredi, e sui momenti dello spettacolo più
buffi e grotteschi.
Loverdose di sesso produce un effetto contrario, sottrae potenziale
erotismo a tali scene per trasformarle in un gioco ginnico, privo di
autentica sensualità, in ultima analisi asettico.
Eloquente in tal senso laccostamento di una sequenza ambientata
sul set di un film porno alle immagini di un ambiente ospedaliero con
il suo corredo di locali freddi, luci snervanti, flebo, ed altre apparecchiature;
contrappunto ideale un brano degli Ustmamo decisamente appropriato,
Kemiospiritual .
Ma, sfortunatamente, Ferrario non costruisce un retroterra solido intorno
a queste scelte. Se il mondo dei professionisti del porno
sfora frequentemente sul macchiettistico, Elisabetta Cavallotti, alias
Nina , laffermata pornostar protagonista della storia, complica
con la molteplicità delle sue motivazioni il quadro tematico
del film.
Sterile insistere, anche a proposito della malattia che la colpisce,
sulleventuale ispirazione tratta dalle vicende private di una
nota diva del porno. Laddove Guardami si avvicina maggiormente
alla cronaca, allallusione a certi personaggi operanti nel settore,
ai metodi di lavoro di affermati manager e registi, la pellicola simpoverisce
contenutisticamente, si perde in banalità. Quando si indaga più
sottilmente sulla personalità di Nina emerge un quadro ricco
e si rivelano le contraddizioni cui abbiamo fatto riferimento.
Lo spirito provocatorio di Nina si esprime non diversamente dallatteggiamento
sarcastico di Valerio Mastrandrea in Tutti giù per terra
, creando una barriera, un divario con il mondo intorno.
La barriera di Nina è fatta di spavalderia, orgoglio nel rivelare
la propria professione a gente comune, come linfermiere ed il
malato/futuro amante conosciuto in ospedale. In un precedente dialogo,
nello spiegare la ragione della sua scelta di vita, la giovane donna
afferma di anteporre ai soldi e al piacere del sesso, che pure fanno
parte della sua vita, una dichiarata forma di esibizionismo, la volontà
di soggiogare limmaginario degli uomini che la guardano e dominarli
con il potere del sesso stesso. Guardami!
Le argomentazioni sull eros di Nagisa Oshima sembrano trovare
in tali parole una rozza e approssimativa parafrasi.
Ma lanelito di libertà, la strafottenza della protagonista,
non collimano completamente con le altre motivazioni che la mano insicura
di Ferrario fornisce alla sua eroina.
Lefficacia del sesso è quindi messa in discussione dalle
scelte linguistiche del regista, ribadita dalle fiere rivendicazioni
di Nina, relegata infine in secondo piano dalla pressione esercitata
dai sentimenti.
Lospedale regala a Nina lamicizia sincera di un infermiere
generoso e schietto e lamore di una persona sensibile e sfortunata.
Strano. Il terzetto che si è creato è come se sfuggisse
alle sollecitazioni e ai ruoli imposti dalla società, un appartarsi
che non è in fondo così lontano dalla fuga, reale, on
the road dei personaggi in difficoltà con la vita de I
figli di Annibale. La serenità e la naturalezza nello
stare insieme superano persino il possibile imbarazzo dei due maschietti
nel ritrovarsi visitatori del set di un film a luci rosse.
La diffidenza, il disagio, il peso di una differente esperienza di vita
cedono il posto alla sincerità del loro affetto. Questa vocazione
in fin dei conti umanistica di un Ferrario al solito sensibile
e schietto si completa con un ulteriore elemento, abbozzato a dire il
vero in maniera molto schematica, il rapporto complesso di Nina con
il padre, stimato professionista e volontario in una struttura ospedaliera
in Bosnia.
Il già delicato e controverso rapporto tra i due vive un momento
significativo nella visita della figlia al genitore, visita che raggiunge
il momento più intenso di fronte ad un simbolo potente, il ponte
distrutto e poi ricostruito a Mostar. Ma limpressione sgradevole
è che Ferrario si limiti ad utilizzare le forti suggestioni del
conflitto bosniaco per indugiare sulle inquietudini esistenziali dei
propri personaggi, rimanendo su unorbita ellittica troppo raramente
vicina allepicentro tragico degli eventi cui fa riferimento.
Uno sguardo esterno che, ad esempio, con la storia delluomo
che non ha più la voglia e la forza di tuffarsi dal ponte sul
fiume come era solito prima della guerra, rischia di strumentalizzare
la drammaticità dellaneddoto per rispecchiare le angosce
sorte nellanimo turbato di Nina.
Il proverbio citato dal padre nel raccontarle questa storia, la
paura ti mangia lanima fa poi venir voglia dindagare
se nella martoriata zona sia effettivamente di uso comune, o se ai bosniaci
sia stata assegnata dufficio una conoscenza della cinematografia
di Fassbinder. Rimane il paradigma di un cinema italiano sensibile ai
risvolti più profondi della crisi jugoslava, anche se la resa
di tale interesse in Guardami lascia qualche perplessità.
Più onesto, ma soprattutto più intimo e partecipe laccostarsi
di Barbara Albert al dramma balcanico: la regista austriaca di Nordrand
con il suo film corale, multietnico, coltiva il fiorire di diverse solitudini
in una Vienna gelida e indifferente. Alcune di queste storie convergono
su Sarayevo, come su un altro polo magnetico che calamita sofferenze,
fughe e ritorni.
Due percorsi differenti ci guidano ad est, partendo da realtà
culturali per vocazione destinate a sentirsi ponte sospeso sullEuropa.
Potrà sembrare che la parentesi bosniaca, che tutto sommato rimane
ai margini della struttura narrativa di Guardami, abbia
occupato uno spazio eccessivo nella nostra analisi.
In parte è così, considerando che è rimasta in
secondo piano una considerazione più attenta delle scelte stilistiche
di Ferrario, svolte allinsegna di una creatività e vivacità
encomiabili seppure non sempre sotto controllo.
Ma ci è sembrato opportuno insistere su certe tematiche che possono
orientare la visione di un film problematico, irrisolto, ma ricco di
tensione interna.
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