Luis Buñuel

Vita di un surrealista discreto - 1
a cura di Stefano Finesi

Luis Buñuel

Biografia parte II

 
Luis Buñuel nasce il 22 febbraio del 1900 a Calanda, cittadina dell’Aragona di sole cinquemila anime, il cui unico motivo di notorietà era la processione del Venerdì Santo, quando centinaia di uomini percorrevano le strade del paese per tutta la notte battendo ossessivamente dei tamburi fino a stramazzare a terra sfiniti. Nel corso della sua vita, lo stesso Buñuel vi parteciperà entusiasta più volte, tornando nella città natale abbandonata in realtà all’età di cinque mesi per il trasferimento della famiglia a Saragozza: in una grande casa con tanto di servitori, don Leonardo e la giovanissima (e cattolicissima) moglie María Portolés crescono il figlio secondo i dettami dell’alta borghesia di allora, con tanto di collegio gesuitico. Il giovane Luis canta in chiesa, segue lezioni di violino, si diverte a inscenare spettacoli con il suo teatrino delle marionette, ma l’idillio dura solo fino ai primi ribellismi adolescenziali, quando inizia a saltare la messa e si fa espellere dal collegio: sarà tuttavia il soggiorno a Madrid, dove Buñuel viene fatto iscrivere suo malgrado alla facoltà di agraria, a offrirgli l’occasione di una formidabile contro-formazione culturale.
Nella capitale, infatti, egli ottiene un posto alla Residencia de estudiantes, neonata istituzione sul modello dei college inglesi per forgiare la futura classe dirigente spagnola, dove si respira comunque un grande dinamismo intellettuale e dove soprattutto il giovane aragonese può ritrovarsi come compagni gli ancora sconosciuti Rafael Alberti, Pepín Bello, Salvador Dalí e Federico García Lorca. Con gli ultimi due, Buñuel forma un affiatato terzetto autore di goliardiche scorribande intellettuali, che lo distraggono decisamente dagli studi di agronomia ma che in compenso gli fanno scoprire la letteratura, in cui si getta a capofitto iniziando a scrivere racconti da spedire alle riviste, già dotati di un embrionale empito surrealista. Intanto si appassiona anche di arte, occultismo, psicanalisi, politica, benché per uno che si definisce “abbastanza sindacalista” e “mezzo anarchico” i tempi sono duri, visto che nel 1923 Primo de Rivera instaura in Spagna un regime dittatoriale. Ma quell’anno è soprattutto l’anno della morte del padre Leonardo: Buñuel vi assiste scolando due bottiglie di cognac e raccontando poi di passare la notte a fuggire per la casa dal fantasma del genitore.

Parigi e la scoperta del cinema
Con la scusa presentata alla madre di voler andare a fare il segretario volontario presso un nuovo organismo culturale dell’Onu, Buñuel, una volta intascata la laurea in lettere (che ha via via soppiantato quella in agraria), intasca anche un po’ di soldi e trasloca a Parigi, che nel 1925 è il tumultuoso epicentro della cultura mondiale. Per Luis è una nuova nascita, malgrado i due incontri fondamentali che farà sono del tutto inaspettati: il primo è quello con Jeanne Rucar, ginnasta olimpica che inizia insegnandogli il tango e finisce per diventare sua moglie; il secondo è quello con il cinema, scoperto quasi per caso o forse per noia. Visto che le sue opere letterarie hanno poca fortuna, Buñuel decide infatti di dedicarsi alla settima arte andando a bussare alla porta di Jean Epstein, che ne approfitta subito per farlo iscrivere alla sua Académie du Cinéma. Qui apprende i rudimenti linguistici e alcune teorie (prima su tutte quella sulla fotogenia) che gli rimarranno addosso per tutto il resto della carriera: nel frattempo è anche reclutato sul set de La caduta della casa Usher e inizia a scrivere critiche cinematografiche per un periodico spagnolo, alternando recensioni e testi teorici. In occasione del bicentenario della morte di Goya, il comitato di festeggiamento di Saragozza gli affida temerariamente l’incarico di girare un film sull’artista, di cui Buñuel scrive la sceneggiatura: quando però il progetto salta, egli riesce comunque a estorcere 25.000 pesetas alla madre per realizzarlo. A distoglierlo dall’impresa sarà l’amico Dalí, che in un soggiorno natalizio nella sua casa di Cadaqués lo convince a scrivere un altro film, basandosi sul metodo follemente surrealista di raccontarsi i sogni fatti durante la notte.
Il 2 aprile 1929, negli sudi parigini di Billancourt, iniziano dunque le riprese di Un chien andalou, titolo preso in prestito da una raccolta di poesie mai pubblicata di Buñuel: dopo due prime trionfali allo Studio des Ursulines e a casa dei visconti di Noailles, mecenati che per l’occasione raccolgono tutta l’intellighenzia parigina, il film resta in programmazione per ben otto mesi allo Studio 28, durante i quali, racconterà Buñuel, vi saranno trenta denunce alla polizia, diversi svenimenti e un aborto. Il giovane regista è già una stella dell’avanguardia, corteggiatissimo dal gruppo surrealista di Breton, il quale lo accoglie facendogli firmare il secondo manifesto e compilandogli un oroscopo di 108 pagine. Il reclutamento più redditizio arriva tuttavia dal visconte di Noailles, che ogni anno regala alla moglie nientemeno che un film d’arte: il regalo del 1930 sarà commissionato proprio a Buñuel, che si vede affidare un budget di 350.000 franchi e scrive di nuovo la sceneggiatura con Dalí, benché l’affiatamento di un tempo sembra finito. Con un titolo suggerito dalla destinataria, L’âge d’or debutta a ottobre al cinema Panthéon, davanti a una platea sublime che include nomi come Artaud, Brancusi, Picasso, Prokoviev, Cocteau, Giacometti, Gide: il successo è notevole ma quando il film passa a tenitura allo Studio 28, un gruppo di estrema destra fa irruzione al cinema e lo distrugge, attirando l’attenzione dei media sulla blasfemia del film. Il risultato, firmato dal prefetto parigino, sarà il sequestro della pellicola e un divieto perpetuo di proiezione pubblica che decadrà solo cinquant’anni dopo.

Produttore e antifranchista
Buñuel non sembra particolarmente scosso dall’accaduto, tanto più che, per un divertente ribaltamento surrealista, in quei giorni si trova per la prima volta a Hollywood, dove gli studios gli offrono un contratto di sei mesi per poi rispedirlo subito a casa. Di nuovo a Parigi, egli rompe con Dalì per motivi personali e con i surrealisti per motivi politici, dopo la scomunica del movimento da parte del Partito Comunista Francese: per guadagnarsi da vivere firma con la Paramount per supervisionare i film doppiati in spagnolo, ma un’impresa cinematografica ancora più ardita delle precedenti è dietro l’angolo. L’amico Ramón Acín, professore di disegno, vince la lotteria e gli offre 20.000 pesetas per girare un documentario sulle Hurdes, regione sottosviluppata dell’Estremadura dove regnano miseria e malattia. Realizzato con pochissimi mezzi, ma anche per questo dotato di una lacerante forza di denuncia, Las Hurdes viene presentato a Madrid nel 1934 e immediatamente proibito dal ministro dell’istruzione in quanto “insultante” per il decoro nazionale.
Ancora una volta, Buñuel assorbe il colpo senza scomporsi, anche perché ha altre impellenze: finalmente ha sposato Jeanne ed è nato il primo figlio, Juan Luis. Per sostenere la giovane famiglia si improvvisa produttore, trasferendosi a Madrid e investendo 75.000 pesetas nella Filmófono dell’amico Ricardo Urgoiti: dei quattro film sfornati nel 1935, di cui egli è ufficialmente produttore esecutivo (Don Quintín el amargao, La hija de Juan Simón, ¿Quien me quiete a mi?, ¡Centinela alerta!), solo il primo riscuoterà un grande successo commerciale, malgrado condivida con gli altri un divertito carattere popolare e musicarello. Ma a decretare la fine della Filmófono è purtroppo un evento di tutt’altra portata come la guerra civile spagnola: Buñuel viene mandato dal governo repubblicano a coordinare la propaganda antifranchista a Ginevra e poi a Parigi, esperienza il cui risultato sarà, tra gli altri, il documentario Espagne 37 (uscito rimaneggiato in Italia come Spagna leale in armi). Quando poi il nuovo ambasciatore spagnolo a Parigi gli chiede di continuare il suo lavoro a Hollywood, dove sembra si facciano film filorepubblicani, Buñuel decide di accettare, non sapendo probabilmente che avrebbe rivisto l’Europa solo dopo tredici anni.

(1 - continua)