John Cassavetes
La coerenza nel caos, pt 2
di Adriano Ercolani


sommario
parte 1
parte 2
parte 3
 
Ombre: sintesi di un progetto di cinema
Nella genesi e nella storia di Ombre sono già contenuti tutti gli stilemi, la poetica e la visione del cinema del suo autore. Negli anni 1956/57 Cassavetes ha alle spalle una discreta esperienza nel campo della televisione, dove ha girato parecchi episodi in alcuni plays. Sono gli anni d’oro della TV americana, in cui hanno un ruolo di primo piano nuovi scrittori e registi orientati verso un marcato realismo, come ad esempio Paddy Chayefsky o Sidney Lumet. Cassavetes senza dubbio recepisce i contenuti di questa nuova maniera di fare TV. In questo periodo riesce a mettere in piedi il suo progetto primario: l’Actor’s Workshop, un laboratorio teatrale autogestito: Ombre prende corpo come esperimento di recitazione e di regia di questo gruppo di persone. E’ un tentativo no budget, sperimentale e pressoché amatoriale per tutti quelli che vi partecipano; addirittura vengono racimolati i fondi tramite un annuncio radiofonico ed il contributo di alcuni amici, come l’attore Seymour Cassel.
Ma qui Cassavetes inizia a mettere a punto il suo metodo: libertà dalle regole della messa in scena e dalla sceneggiatura, attraverso l’utilizzo di un canovaccio modificabile per la storia e una macchina da presa, indifferente alla grammatica e alla sintassi tradizionali, che segue i personaggi invece di imporgli i movimenti. La colonna sonora del film è interna alla storia, la fotografia rimane sgranata a causa dell’illuminazione “ad acquario”, che consente ai corpi piena libertà di movimento, e il montaggio tradisce le regole della narratività e cerca accordi più arditi. Gli attori, non professionisti, tramite l’improvvisazione forniscono un’interpretazione non dogmatica ma viscerale.
Ombre esce nel 1959, ed immediatamente riscuote l’entusiasmo di quello che l’anno successivo si fonda come “New American Cinema Group” (NAC): soprattutto Jonas Mekas, la figura forse più importante del movimento newyorkese, vede in Cassavetes l’”autore nuovo”, ed attribuisce al suo film d’esordio l’”Independent Film Award” istituito dalla rivista “Film culture”, il periodico del NAC.
Cassavetes però subito spiazza tutti: non contento della prima versione della pellicola, ne prepara un’altra nel 1960, molto meno sperimentale ed amatoriale, con una sceneggiatura più scritta ed una messa in scena più accurata, passando anche dai 16 mm della prima versione ai 35 mm della seconda. Il montaggio diventa più formale, lontano dalla creatività della prima versione. La sperimentazione si accompagna al tentativo di non essere omologato a nessuna corrente: il regista non condivide l’intellettualità e gli elementi di contestazione del NAC, che si schierava apertamente contro l’industria hollywoodiana. Il suo cinema è volto alla ricerca della naturalità delle persone-attori, e per questo disdegna l’artificio della messa in scena “classica”: non si vuole schierare come rottura rispetto alle produzioni ufficiali, ma sottrarre la materia filmica a codici preordinati.
Nella complessa gestazione di Ombre c’è anche l’ansia del suo regista nei confronti dei propri prodotti. La materia filmica per lui è qualcosa che viene sempre ricomposto, ripensato, vissuto, in linea con quello che è impresso nella pellicola: non scordiamo l’enorme lavoro al montaggio per comporre la versione finale di Faces, scaturita da ben diciassette ore di girato; oppure la riedizione di L’Assassinio di un Allibratore Cinese, rimesso in circolazione nel 1978 tagliato di mezz’ora dopo il successo di Una Moglie. Come il contenuto dei film di Cassavetes è qualcosa di magmatico, aperto alla trasformazione, non incorniciabile in una nozione artificiosa di “finito”, così anche i film stessi possono essere oggetto di manipolazione da parte del suo autore: la creazione non è qualcosa di assoluto ed intoccabile, un’opera d’arte che perde valore se ripensata dopo il suo concepimento. Il senso del fare cinema è nel lavoro con gli attori, non nel prodotto finito e destinato alla divulgazione presso il pubblico. Si fanno i film per se stessi e per le persone che ci circondano.

Da Faces a Una moglie: evoluzione nel metodo
Il 14 aprile 1969 vengono assegnati i premi Oscar: nella categoria per la migliore sceneggiatura originale concorrono autori come Mel Brooks, Stanley Kubrick, Solinas, Pontecorvo, e Cassavetes per Faces (vincerà Brooks!). Sei anni dopo, l'8 aprile 1975, Cassavetes è di nuovo in corsa per un Oscar: questa volta si tratta della candidatura per la regia di Una Moglie. A battere lui ed altri grandi sarà Francis Ford Coppola con Il Padrino parte II. Non è un caso che si parli prima di un premio alla sceneggiatura e poi di uno alla regia. Come suggerisce Sergio Arecco, Faces e Una Moglie sono l’inizio e la fine di un tetralogia che il regista ha composto sui legami interpersonali comuni, soprattutto la coppia uomo-donna. Gli altri due episodi di questo quartetto sono Mariti e Minnie & Moskowitz. All’inizio viene in qualche modo messa in evidenza la fase di composizione della storia, mentre alla fine ciò che viene riconosciuto è soprattutto la regia. Man mano che si procede nella visione in sequenza di questi quattro film ci si accorge che la struttura portante delle vicende è sempre meno aleatoria, mentre gli effetti della messa in scena si fanno più presenti. Cassavetes inizia a dosare in maniera diversa gli elementi di spontaneità ed elaborazione del suo metodo di lavoro. In Faces questo metodo pende in favore della creazione dell’atmosfera e dell’energia tramite la parola e tramite gli interpreti: il regista adopera un procedimento di ripresa sottomesso a chi si trova davanti alla macchina da presa, che diventa testimone quasi succube degli eventi o della mancanza di essi. Cassavetes preferisce usare due m.d.p. per impedire gli interventi di raccordo, e garantire al girato la spontaneità e l’emozione provocata dalla continuità temporale e soprattutto emozionale. La regia è perciò partecipe, non rimane una testimone lontana dagli eventi. L’immagine si trova sempre nel mezzo della vicenda, come se fosse un altro protagonista, e il regista non si cura dell’esatta sintassi e grammatica della visione, perché per lui l’importante è arrivare a cogliere la realtà che sta accadendo in quel momento.
Il film successivo, Husbands (Mariti, 1970), a prima vista sembrerebbe smentire questa convinzione, secondo le parole del suo stesso autore: “In Ombre e Mariti c’è molta improvvisazione, ma per Faces, Minnie & Moskowitz, Una moglie, tutto era stato scritto in precedenza. Per me in ogni caso il risultato è lo stesso.”. In effetti il risultato finale di Mariti riesce ad accentuare la componente goliardica e carnevalesca, grazie anche all’incipit della storia: la rivolta di tre amici alla morte del quarto. Assistiamo sicuramente ad una maggiore libertà degli attori: i dialoghi e le situazioni sembrano decisamente più improvvisati che in Faces. Ma se il testo è più aperto, così non è per la regia: la fattura “sporca” delle inquadrature è talmente evidente e la messa in scena “noncurante” – tutto sembra costruito all’insegna del momento - che potrebbe essere in qualche modo ricercata, e comunque non così ingenua e maccheronica come vuole apparire. In ogni caso l’effetto che ne risulta si rivela pienamente coerente con l’intento dell’autore. Il film è il prodotto di un budget inesistente e la cooperazione di amici, e si ha l’impressione che il regista abbia voluto girarlo secondo le regole dello home movie. In questo senso l’inizio del film è una dichiarazione di intenti: un filmino amatoriale su una riunione estiva di Cassavetes e amici, in cui tutti scherzano e ridono, proprio come durante i video che si girano alle feste di compleanno. Lo stesso regista ha parlato di questo film come del suo più radicale esperimento di libertà creativa.
Minnie & Moskowitz si presenta invece sotto tutt’altra prospettiva: nella confezione della pellicola saltano subito agli occhi l’accuratezza formale e compositiva. Come per il film precedente, siamo nel territorio dell’opera buffa, ma decisamente meno sgangherata. Se il grottesco in precedenza è risultato la dominante della vicenda dei tre amici, adesso nell’orchestrazione delle vicende della coppia Rowlands-Cassel compare una strategia più articolata tra serio e carnevalesco. In un certo qual modo Cassavetes cerca di rifarsi al modello della sophisticated comedy classica: grazie alla sua carriera di attore ha ben presente, come vedremo, gli schemi e le caratteristiche dei generi hollywoodiani, e prova a “mischiarli” al suo stile e alla sua poetica. In Minnie & Moskowitz una delle scene più importanti del film è allo stesso tempo una costante di tutto il cinema di Cassavetes: lo scontro dei protagonisti nella stanza da bagno. Nei film precedenti quest’ambientazione era stata usata per rappresentare dei momenti altamente drammatici - il tentato suicidio di Lynn Carlin in Faces - oppure dei nodi della storia che si sciolgono - i protagonisti di Mariti prendono praticamente tutte le decisioni in bagno. In ognuno di questi episodi, soprattutto nel pathos della scena in cui Seymur Cassel cerca di salvare l’amante occasionale dalla morte (Faces), la regia si fa più “istantanea”, volta a catturare le emozioni del momento. Nei pochi minuti ambientati nel bagno della casa di Minnie, invece, sia la m.d.p. che la performance dei protagonisti sono tenute sotto un certo controllo. Si tratta comunque di un momento forte del film, che culmina con il sacrificio di Moskowitz che si taglia i baffi per amore di lei: eppure ci si accorge che la messa in scena in una sua maniera è più ricercata, quasi più classica. Sempre Arecco ha scritto nel suo libro che questo film contiene in sé dei richiami chapliniani-sennettiani.
Summa della tetralogia e coronamento di tutto il discorso di Cassavetes sulle “scene da un matrimonio”, in Una moglie assistiamo ad una perfetta, studiata gestione delle risorse, sia degli attori che della messa in scena. L’importanza dell’improvvisazione viene decisamente sottoposta alla verifica della regia: non pochi sono ad esempio i piani sequenza di scene particolarmente forti. Ma se in passato questi sarebbero stati girati con la m.d.p. partecipe, convulsa, dentro le emozioni, adesso il mezzo rimane fermo, immobile, neutro, eppure presente forse come in nessun altro lavoro del regista. Con Una moglie Cassavetes ha definitivamente preso coscienza del suo essere anche dietro l’atto di filmare: ha definitivamente imposto, forse prima a sé stesso che agli altri, il suo essere autore.

(2 - continua)