Clint Eastwood

The last tycoon
di Adriano Ercolani

 
 
Come i grandi cineasti del passato, come tutti i registi che credono nel proprio progetto al punto di rischiare in prima persona, Clint Eastwood ha rinunciato a qualsiasi compenso pur di girare Mystic river, opera preziosa che rappresenta forse la vetta artistica della sua filmografia, anche più di un capolavoro doloroso ed autunnale come Gli spietati (Unforgiven, 1992). Come i grandi cineasti del passato, Eastwood porta avanti la propria personale poetica anche attraverso l’esplorazione di generi diversi tra loro come il western, il “noir”, il road-movie o addirittura il melodramma. Cantore disilluso ma lucidissimo di personaggi e valori ormai tramontati, il cinema di Eastwood è ormai costellato di tutta una serie di figura che definire “fantasmi” non sembra inesatto: uomini e donne (soprattutto i primi) depositari di una sapienza e saggezza conquistata attraverso il dolore, il peccato, spesso la violenza; uomini fuori dal tempo in cui vivono, piegati ma non spezzati dal proprio passato, non allineati al conformismo ed al lassismo di una società in cambiamento. Personaggi perciò che trovano la loro migliore raffigurazione nel chiaroscuro, nell’indefinitezza del tratto, spesso nel colore ombroso e cupo. La grande vena malinconica di Eastwood allora viene fuori in tutta la sua forza di rappresentazione: pensiamo al grande finale de Gli spietati, in cui l’ultima inquadratura è proprio l’ombra di William Munny che osserva ancora una volta la casa in cui ha vissuto insieme ai figli ed alla moglie scomparsa, e poi a sua volta scompare in dissolvenza, proprio come un fantasma. Anche la scena conclusiva di I ponti di Madison County (The bridges of Madison County, 1995) ci riconsegna la stessa visione di Eastwood: la sua figura si staglia indistinta, immobile sotto la pioggia battente, spettatore ormai impassibile e fuori dal tempo di un mondo ormai cambiato.
Se dunque la poetica di questo grande autore è sempre riuscita con lucida precisione ad esporre le proprie linee principali, anche l’estetica cinematografica di molte delle opere di Eastwood può essere definita estremamente coerente: soprattutto nei suoi film più riusciti il cineasta ha dato prova di essere forse l’ultimo autore letteralmente “classico” del panorama cinematografico americano. Regista mai “invadente”, capace di trasformare la semplicità visiva in eleganza assoluta, soprattutto dopo il dovuto riconoscimento internazionale de Gli spietati Eastwood ha potuto iniziare a fare il cinema che più gli si è dimostrato consono. In un periodo in cui praticamente tutto il cinema americano cosiddetto “autoriale” – basta guardare i fratelli Coen, Tim Burton, Paul Thomas Anderson, tanto per citare i cineasti americani più acclamati dalla critica internazionale - ha ripreso gli stilemi del periodo classico e li ha re-interpretati in chiave moderna (o per meglio dire post-moderna), il regista di Bird (id., 1988) ha invece scelto la strada completamente opposta, e cioè quella di una fluidità di racconto e di una firma registica assolutamente classiche, sia per quanto riguarda la ricerca del racconto che per l’impostazione più propriamente estetica della messa in scena. Da questa precisissima visione del cinema e dei suoi meccanismi di narrazione, a prescindere anche dal genere scelto per raccontare, Eastwood ha tirato fuori un “personal touch” assolutamente inconfondibile, rintracciabile anche nelle prove meno riuscite. Quando poi è stato sorretto dalla vena creativa e da una storia possente, come nel caso di Mystic river, il cineasta è riuscito a proporre un cinema “fuori dal tempo” ancora più ficcante e prezioso di quello di autori invece prepotentemente calati nel proprio universo filmico. Sotto questo punto di vista, il cinema di Eastwood davvero sembra essere un cinema difficilmente collocabile nella cornice opprimente di un determinato periodo storico, tanto riesce ad essere attuale ed artisticamente valido; autore sempre coerente con sé stesso, capace di dirigere opere sempre legate da un filo di continuità riconoscibile e perciò analizzabile, il cineasta può al momento essere tranquillamente essere considerato l’ultimo grande autore “classico” del panorama statunitense contemporaneo, e forse in questo senso il suo discorso poetico e stilistico è tanto più avanzato di molti autori cresciuti all’ombra di tanto cinema “confuso” degli ultimi anni.