the Terminal
Dialogare senza dialettica
di Giuliano Tomassacci


recensione: the Terminal
 
the Terminal, USA, 2004
un film di Steven Spielberg, musica di John Williams

Moti discontinui animano la critica contemporanea in questo scorcio d’inizio secolo cinematografico.
Mentre si chiude un occhio sull’ultimo exploit del genio tarantiniano, scambiando un’audace ma difettosa scavigliatura commerciale per l’ennesima prestazione d’eccezione del regista statunitense, e l’Academy cede alla grandezza di Peter Jackson contravvenendo al proprio protocollo nell’insignire il sequel di un sequel con l’Oscar per il miglior film, mentre insomma nel nuovo millennio all’ottava arte sembra tutto concesso, la critica internazionale non perdona Steven Spielberg. Le evidenti scolature d’imperfezione grondanti dal suo più recente torrente filmico - sotto gli occhi di una critica moderna affezionata ma contrariata dal suo enfant prodige forse più caro - si cristallizzano in acuminate schegge di risentimento-dissenso.
Anche dalle fonti più insospettabili, l’itinerario disatteso dallo Spielberg ‘terza maniera’ è bersaglio di giudizi tutt’altro che accomodanti. Si pensa, in primis, alla sfrontata lettera aperta pubblicata da Peter Bart sulle pagine di Variety, in cui, partendo del relativo flop al botteghino incassato da The Terminal, il giornalista associa il calo artistico e redditizio della recente opera spielberghiana ad una sarcastica “crisi di mezza età”. Non una formale stroncatura inclusa nelle reviews, né un dettagliato intervento analitico lambente le più recenti tappe professionali del cineasta, bensì un rimbrotto aperto e diretto al regista a proposito dei suoi insuccessi. Un segno incontestabile della genuina affettività tuttora concessa dai frangenti critici più disparati all’enfant prodige di Cincinnati, maturata però negli anni severa come quella di un genitore troppo affezionato al proprio figlio per concedergli la condiscendenza agevolata ai più giovani, e forse meno cari, talenti. “Paterna” intransigenza di cui si veste persino il periodico più ‘industriale’ sulla piazza internazionale. E certo Bart non tradisce l’inclinazione manageriale della testata quando arriva addirittura a fare i conti in tasca non solo al regista, ma anche allo Spielberg produttore, tirando in causa i deludenti bilanci della Dreamworks e alimentando ulteriormente l’incalzante interrogativo: “L’uomo dei sogni ha forse perso la sua bacchetta ?”.
Certamente lucido e statisticamente indiscutibile, l’intervento di Variety superficializza però fin troppo sulle cause propriamente artistiche della ‘crisi’, limitandosi a bollare The Terminal come una “una delusione su tutti i fronti”. Ben più interessante si fa allora il recente giudizio estetico proposto da Ryan Gilbey tra le recensioni di "Sight and Sound". Anche in questo caso si è di fronte ad un attacco insospettabile, ma stavolta non per la natura della rivista, da sempre impegnata nell’approfondimento critico. Ciò che più sorprende nella review di Gilbey – tutto sommato mite nei confronti dell’ultimo film con Tom Hanks – è l’additare il commento musicale di John Williams come elemento tra i più difettanti e compromettenti dell’opera, arrischiandosi, con puntiglio, nello scalfire uno dei tabù più salvaguardati dalla moderna critica cine-musicale - e non solo.

Un tandem in calo
Mentre Spielberg ha formato una ripagante nuova alleanza con il direttore della fotografia Janusz Kaminski”, scrive Gilbey, “sembra perversamente contrario a dotare Williams del suo ordine di marcia”. Il giornalista osserva come il ruolo del jazz, cruciale ai fini della trama, sia stato notevolmente escluso dal soundtrack, “dove tutto lo spazio è sacrificato ad un’altra brutale partitura di John Williams”.
Anche il più inattaccabile fortilizio del feudo spielberghiano – la longeva ed ancora ineguagliabile partnership con il pluripremiato compositore del Queens – inizia dunque ad essere mirato. Gilbey arriva a confermare una sensazione che se solo lontanamente avvertita in A.I., nell’ultimo trittico cinematografico della coppia aumenta fino alla preoccupazione. Prima Minority Report, con il suo approccio invadente e ingombrante alla fantascienza dickiana, a cui Williams rispondeva ricorrendo ad uno dei suoi più bassi profili di sempre (sia di contorno alle immagini che all’ascolto isolato). Poi il più convincente Prova a Prendermi, purtroppo però inconsistentemente diluito tra spy/drama e nostalig-comedy, sorretto alla meglio (se stimato attraverso il filtro delle passate sinergie tra i due autori) da un disinvolto, ma altrettanto fragile, registro “manciniano” da parte del compositore.
Consolidata infine con The Terminal la certezza di un calo produttivo dello straordinario tandem artistico, si apre sterminato il campo alle possibili causali del fenomeno. Svetta in cima alla lista l’ancora incessante periodo di iperproduttività da cui il regista americano sembra non volersi sottrarre; un susseguirsi – se non un accavallarsi - di progetti registici e produttivi responsabili di una riduzione dei fondamentali tempi di confronto tra regista e musicista. Una condizione lavorativa che probabilmente non basta a stimolare sufficientemente Williams nell’oltrepassare quell’evidente stallo ispirazionale responsabile, da qualche anno, di una ‘decorosa’ diligenza manieristica (che non ha certo risparmiato anche gli esiti musicali delle ultime incursioni lucasiane, se si vuole ancor meno corroboranti delle nuove proposte spielberghiane). Basti pensare, d’altro canto, a quanto la vena del musicista abbia ripreso a sgorgare notevole creatività in occasione del terzo capitolo di Harry Potter – operazione alla quale Williams era stato infatti concretamente attivato già in fase di pre-produzione – per avvalorare simili deduzioni. C’è poi l’odierna incertezza del regista nell’individuare, tra le molte accarezzate, una tematica di genere trainante (in particolare nell’ultimo dittico Prova a Prendermi / The Terminal) su cui intonare il materiale diegetico, che il più delle volte confonde il compositore riguardo l’assett generale delle partiture. Ed è forse quest’ultima ipotesi a fungere da miglior corollario a quella che indubbiamente rimane, incontrovertibile, la primaria chiave di lettura alle problematiche del duo.

Le ragioni del declino
A fornirla, dopotutto, è sempre stato lo stesso Spielberg. Negli anni 80 il cineasta aveva più volte ribadito come Williams rappresentasse il suo “musical rewrite artist”, capace di riscrivere musicalmente i suoi film e di ripresentarli al pubblico “molto meglio” di lui. Poi nel 2001 l’ulteriore riconferma in occasione di A.I., dove la musica del “più grande narratore di tutti i tempi”, secondo Spielberg, non aveva bisogno “delle immagini per raccontare la storia”.
Non c’è contraddizione o sopravvalutazione negli apprezzamenti di Spielberg, sebbene il ridimensionamento rintracciato nell’excursus professionale dei due collaboratori a cavallo delle citate dichiarazioni possa far balenare il sentore di una certa incongruenza nelle parole del regista.
Tutt’altro. Spielberg non potrebbe essere più ragionevole. Il suo connubio non sì è certo spento negli anni, né sopito o demotivato. Al contrario, quella frequentazione che sul finire del secolo scorso cresceva esemplare quale calibratissimo esempio d’interazione tra i codici immagine-musica, oggi porta a maturazione una completa simbiosi tra due intelletti artistici inscindibili. I due artisti hanno perseguito la loro rispettiva ammirazione professionale, il loro mutuo rispetto lavorativo e il parallelo adattamento l’uno ai canoni dell’altro fino all’annullamento della fondamentale dialettica costruttiva. I recenti segnali filmografici delineano insomma un’intesa che snatura oltre i limiti della complementarità per degenerare nell’univocità assecondante. Dove prima ragionava costruttivamente la funzionalità dell’intervento musicale (maggior attenzione in fase di spotting, selezione oculata dei punti musica), oggi il regista lascia forse troppa autonomia a Williams (ecco dunque il compositore che da "rewrite artist” diventa “grande narratore”). Di converso, dove nei passati lavori il compositore manteneva un approccio discorsivo e, appunto, complementare con il fotografico – magari lavorando ‘contro’ le immagini, magari limando il testo orchestrale (Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Salvate il Soldato Ryan) - ora Williams sembra adagiarsi al fluire filmico. Il suo intervento perde il valore di controcanto filmico per diminuirsi alla stregua di un secondo coro aggiunto a quello del copione. I due artisti raccontano insieme, le stesse cose e con gli stessi tempi, senza avvicendarsi nell’evidenziare quello che le proprie, rispettive arti dovrebbero prediligere. Ne risulta un appiattimento descrittivo inusuale all’opera spielberghiana e un decorso narrativo parallelo e simultaneo condiviso dai due linguaggi che diventa esemplare in The Terminal.

Spielberg e Williams intrappolati nel Terminal
Il film apre in perfezione, equilibrato e scrupoloso nei tagli registici e nel dipanarsi dei dialoghi – gli ultimi responsabili di dinamiche iterative tra i personaggi soppesate alla leggerezza e al fraintendimento glottologico spesso rasente il nonsense. Assieme ai divergenti elementi d’ambientazione (la tragedia così umana del protagonista calata all’interno di una zona franca schizzante verso il parossismo), sono questi i presupposti che assecondano Spielberg verso i territori ‘capriani’ di cui si è tanto detto. Da parte sua Williams segue moderato l’incedere del cineasta, intervenendo parcamente a commentare la tragedia di Navorski nell’apprendere il motivo del suo stallo imposto (il compositore evita di scrivere anche per il main title). Segue un set-up tutto sommato ancora sufficientemente bilanciato e fruibilissimo, dove il regista delinea il frangente romantico attraverso piccoli accenni che lo salvaguardano dall’inconsistenza di una co-protagonista inadatta. Un’idonea marcia di sapore ucraino e l’abbozzo di un ampio tema stile vecchia Hollywood per la parentesi amorosa dello script confermano un Williams attento al diegetico. Prima del previsto però – come in A.I. – Spielberg allenta la presa: la regia si fa meno stringata,soverchiata dal rigonfiamento melodrammatico; la nutrita galleria di personaggi circondariali denuncia un’inadeguatezza di spessore che, debitamente controllata, rappresentava il punto di forza del primo quarto d’ora. Soprattutto, lo spostamento d’interesse da Navorski alla sua nuova dimensione sentimentale apre il sipario sulla scarsa resa della Zeta-Jones, orami troppo indaffarata a cercare la giusta luce di Kaminski per avvalorare la propria performance. Rimane Hanks (grandissimo motore trainante dell’opera) ma non certo Williams, che scivolando di pari passo con il regista offre il meglio del suo scoring d’ufficio (quello che Gilbey paragona, esagerando a sproposito, “agli annunci Tannoy che inevitabilmente accompagnano gli incontri ai cancelli di arrivo e le lacrime d’addio alle partenze”). Mal dosato e poco sfruttato nelle sue potenzialità orchestrali, il felice tema di Navorski diventa altalenante e incerto negli utilizzi, mentre il rigoglioso tema d’amore, seppure maggiormente sviluppato, si gonfia fino a livelli oltremodo inadatti alla leggerezza improntata dalle prime mosse del film. Rimangono gustose divagazioni rotiane, naturalmente insufficienti a garantire organicità allo score. Ne rende atto la compilazione dell’album Decca, che anche stravolgendo pesantemente l’ordine cronologico non riesce ad assicurare un ascolto autonomo del tutto soddisfacente.
Con The Terminal dunque il fortilizio Spielberg-Williams si espone, forse come mai primad’ora, ad un’indagine critica purtroppo sempre più facilitata nel rintracciare le debolezze dei due collaboratori. Senza dubbio un’indagine che non riesce neppure superficialmente a scalfire le consolidate posizioni dei due artisti all’interno dei rispetti ambiti d’azione: Spielberg rimane un narratore superlativo, Williams non smetterà mai di guidare la contemporaneità musicale verso nuove sensibilizzazioni sinfoniche. Ma c’è da chiedersi quanto i due talenti, nelle loro vesti di cineasti, abbiamo ancora voglia – o coraggio – di offrire e sacrificare al sacro fuoco del cinema e della musica da film, perlomeno nell’ambito del loro odierno cooperare.
Magari il confronto fantascientifico del già annunciato War of the Worlds offrirà la giusta stimolazione per una riattivazione dei canali di convergenza creativa. L’augurio, e la forte speranza, è che la coppia possa continuare ad elargire nuovo nutrimento ispirazionale alle moderne associazioni, autori come Shyamalan e Howard, Burton ed Elfman, Zemeckis e Silvestri, che dalla loro dottrina hanno tratto i presupposti per le proprie forme individuali.