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Cinque
pezzi facili (Five Easy Pieces, Usa, 1970)
con Jack Nicholson, Karen Black, Susan Anspach
Il re dei giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens,
Usa, 1972)
con Jack Nicholson, Bruce Dern, Ellen Burstyn.
Nel panorama degli autori che tra la fine degli anni 60 e linizio
del decennio successivo hanno trasformato Hollywood, e di conseguenza
i principi estetici principali dellindustria cinematografica americana,
quello il cui cinema ha maggiormente indagato la difficoltà di
rapporti umani, lincoerenza dei sentimenti, lalienazione
allinterno dei nuclei portanti della società - soprattutto
la famiglia - è stato senza dubbio Bob Rafelson. Cineasta discontinuo,
che troppo spesso si è perso nei meandri del lavoro su commissione
o del prodotto di genere stancamente riproposto, Rafelson ha però
scritto, con Cinque pezzi facili e Il re dei
giardini di Marvin, un pagina importante di cinema americano,
recando definitivamente a compimento un percorso intimista ed autoriale
che, ovviamente a modo loro, già autori come Francis Ford Coppola
con Non torno a casa stasera o Martin Scorsese con
Chi sta bussando alla mia porta (solo per citare i
più conosciuti) avevano introdotto allinterno della nuova
ondata di cineasti.
Profondo conoscitore dei meccanismi che da qualche tempo Hollywood si
stava apprestando a mettere definitivamente in discussione, Rafelson
ha avuto sicuramente il merito di aver capito, forse anche prima degli
altri, che un prodotto di larga fruibilità, per quanto personale
e difficile, deve possedere caratteristiche e stilemi adatti al grande
pubblico. Per indagare luniverso solitario ed alienante dei propri
personaggi il regista ha scelto il modo più impervio possibile
per raccontare il silenzio interiore: luso della parola. Sia in
Cinque pezzi facili che nel film successivo, la costante
stilistica è rappresentata dallincessante e logorroico
flusso di dialoghi e monologhi, un vociare spesso confuso e sovrapposto
ormai inutilizzabile per lo scopo a cui era destinato: la comunicazione.
La parola nei film di Rafelson non è più strumento primo
e necessario per la trasmissione di idee, di stati danimo o semplici
emozioni: atto impossibile da sopprimere, ma ormai incapace ad essere
filtro e momento di comunione, il parlare si riduce a mero simbolo di
lontananza, testimone arido di una serie di insuccessi e solitudini
tutte individuali, mai partecipi di unesperienza collettiva. Se
un altro grande poeta dellincomunicabilità, Michelangelo
Antonioni, adoperava il silenzio e la bellezza della messa in scena
per evidenziare il suo discorso, Rafelson compie il percorso esattamente
opposto: nei suoi film ci si trova di fronte ad un ribaltamento radicale
dei processi di comunicazione, che adesso servono unicamente per testimoniare
la loro nemesi, il silenzio (inteso come nulla da dare/comunicare).
Regista capace di non invadere con il mezzo-cinema i propri film, Rafelson
ha sempre privilegiato il lavoro sulla scrittura, sullimprovvisazione
e soprattutto sugli attori, limitandosi ad usare la macchina da presa
come testimone discreto e lucido di quello che le avveniva davanti.
Altra grande e pregnante qualità di Cinque pezzi facili
e Il re dei giardini di Marvin è stata quella
di avere degli attori in grado di saper assecondare il discorso poetico
dellautore attraverso il proprio timbro recitativo. Da sempre
istrione e camaleonte, Jack Nicholson in queste due pellicole partecipa
con piena coerenza a ciò che da Rafelson gli viene chiesto: caricare
il personaggio per renderlo invece più vuoto, solitario, sconfitto.
Nessuna attore nella storia del cinema americano, a nostro avviso, ha
saputo come Nicholson trasmettere un senso di inadeguatezza e di disagio
interiore proprio attraverso lestenuazione della recitazione,
attraverso laccentuazione di un involucro esterno sornione e giullaresco,
che altro non serve se non a nascondere la fragilità dellanimo
umano. Accanto a lui, nei due film presi in analisi, una serie di caratteristi
in grado di assecondarlo e di diventarne una coerente e funzionale prosecuzione
semantica: la svampita ed adorabile Karen Black di Cinque
pezzi facili, ad esempio, altro non rappresenta se non lesplicazione
metaforica del vuoto esistenziale di Bobby Eroica Dupea, imprigionato
per suo stesso volere in una serie di dialoghi inutili con una ragazza
che non ama ma di cui non riesce a fare a meno. Allo stesso modo, il
Bruce Dern e soprattutto la straordinaria Ellen Burstyn de Il
re dei giardini di Marvin sono la rappresentazione neppure
troppo implicita di un nucleo familiare sovraccarico di informazioni
non basilari, che finisce per disfare se stesso acquisendo al proprio
interno la violenza (cooptata ma anche pratica) che la società
esterna continua a proporre. Tutti questi personaggi hanno in comune
la perdita di identità, di senso, di obiettivi, e soprattutto
delle potenzialità inespresse che inconsciamente cacciano
fuori attraverso lo strabordare fonico della parola. Rafelson
dunque non nasconde il disagio, ma lo ricopre di strati su strati, fino
a renderlo alla fine quasi parossistico; in questo senso Cinque
pezzi facili e Il re dei giardini di Marvin
rappresentano, come due film gemelli sanno essere, il simulacro pesante
ed inattaccabile della poetica del loro autore.
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