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^ Orphans, di Peter
Mullan
Tre film diversi, legati da una suggestione, forse da un arbitrio. Gli
eventi raccontati in Orphans, Giamaica,
Bure Baruta vivono, pulsano in una dimensione notturna.
La luce naturale indietreggia di fronte al peso specifico di certi volti,
visibilmente provati dalla veglia; il sole si concede, al limite, tramite
un chiarore incorporeo, parodia del giorno, e cornice di destini già
compiuti prima dell'alba.
Il mondo vive solo di notte. L'Europa piange di stelle offuscate dallo
smog cittadino la sua acquisita insignificanza. Ricomponendo i frammenti
della sua cartina, memori di guerre passate e future, ci vien voglia
di perlustrare le sue periferie alla luce di lampioni a gas e luci al
neon.
Il presente è stasi; di notte ribolle e rivela le nevrosi di
chi è condannato all'attesa e alla speranza mortificata. Scegliendo
tra le tante anime in pena, pediniamo in Scozia gli orfanelli di Peter
Mullan. Orphans, capogiro di un prologo; quattro fratelli
perplessi e impauriti di fronte a una bara. Sempre insieme, nonostante
tutto. Rimane negli occhi il giro di giostra di una panoramica che li
ritrae tra presente e passato, dentro una stanza, prima adulti, alle
prese con l'immobilità imbarazzante del lutto, poi bambini, chiassosi
nel letto della madre scomparsa. Eppure sono divisi da un oceano di
problemi, ed altri ne verranno ora che hanno perso il loro punto di
riferimento. La notte li accoglie e li tradisce, e sarà una notte
incredibile, interminabile. Una serata al pub prima della veglia funebre
catalizza le amarezze e le tensioni, degenera in rissa, e i destini
si separano temporaneamente.
Si affoga nei propri guai. Il fratello maggiore, ipocritamente al servizio
di un ricordo e di una fede, rimane a presidio della bara in una chiesa
palcoscenico di gags dal sapore "slapstick", con statue in
frantumi e tetti che magicamente volano. E' il meritato assedio alla
torre d'avorio di chi si crede più maturo e in realtà
vuole isolarsi dai problemi degli altri: la sorella minore è
lasciata a deambulare in carrozzella nelle strade deserte in compagnia
del suo handicap e delle battute sgraziate della gente (il "politicamente
scorretto" ghigna continuamente in Orphans); i
due fratelli vagano come schegge impazzite, feriti nell'addome (le coltellate
fanno male...) o nell'orgoglio.
Si susseguono storie grottesche e piani assurdi. Persone comuni e balordi
dichiarati, se è ammissibile una distinzione, agiscono sistematicamente
ai margini del buon senso.
Divagazioni e aneddoti "pulp" a volte divertono, non sempre
convincono: i coltelli e le schioppettate incidono meno delle parole,
nella Scozia di Peter Mullan. Pare che ogni incontro, ogni rapporto
umano si nutra di insulti pittoreschi e di aggressività verbale
senza controllo. E' il calco spietatamente parodistico di una società
dell'indifferenza e dell'insofferenza.
Prime luci del giorno. L'alba tramonta sulle preoccupazioni e sui fremiti
degli orfanelli di Peter Mullan, li costringe a ricongiungersi e a guardarsi
in faccia. Ci sarebbero un funerale da celebrare e l'urgenza di un ricovero:
ma non sempre è chiara la priorità tra l'omaggio ad un
defunto e il soccorso ad un fratello ferito. In ogni caso tutto è
presto dimenticato, proiettati nuovamente nella precarietà dell'esistenza.
Sempre insieme, nonostante tutto. Qualcuno però è scomparso
sul serio, a Roma.
Altra notte, tutt'altra storia. Siamo spinti fuori della fiction dall'improvvisa
necessità di ricordare un fatto di cronaca. Qualche anno fa un
giovane di colore, Auro, trova una morte violenta nel rogo di un centro
sociale. Il regista di Giamaica, Luigi Faccini, aveva
incontrato lui e il suo mondo, i suoi amici, sulla strada di un impegno
sociale che doveva sfociare nel suo cinema e nella sua letteratura di
allora. A distanza di anni un omaggio sentito, una ricostruzione che
è soprattutto reinvenzione, produzione di mito. La cronistoria
di un mondo periferico diventa magicamente sinfonia di un'emarginazione,
di un sentire, lo specchio di una realtà fraintesa dalle voci
officianti e autorevoli della società civile. Realtà fraintesa
perché vista esclusivamente nel suo pericoloso sovrapporsi alla
normalità e alla legalità. Lo sguardo che non teme l'oscurità
scopre al contrario un mondo composito, un mondo che si espande e si
contrae nelle ore notturne ondeggiando tra scommesse clandestine, retate
della polizia, azioni violente e ingiustificate, ma anche musica, amicizia
sincera, raduni pacifici, alternative artistiche. Ed anche le scelte
e le vite dei protagonisti ballano su questo instabile confine. Tale
notturno italiano prende vita, nel film, dall'autocombustione della
foto che Auro, ragazzo animato dal sogno di approdare alla terra promessa,
la Giamaica del reggae, scatta con i suoi amici, i giorni prima di bruciare
egli stesso.
Introduzione ed allusione tragica. E' il biglietto da visita di una
regia romantica e idealista, così sensibile ai colori, i colori
della vita, ma anche sincera e brutale nella rappresentazione della
violenza e del vizio. I colori del sogno giamaicano, il giallo, il verde,
il rosso, il Negro, li troviamo esposti nei murales, nelle bandiere,
nei simboli, nelle facce degli amici di Auro e forse perfino nei loro
gesti. Brillano nell'oscurità perché sono vita, ribellione,
autenticità, lottano nella loro fragilità per sottrarsi
al buio, al nero delle pistole e del tetro abbigliamento "skin-head",
al blu scuro delle divise d'ordinanza.
Faccini modula la scala cromatica di Giamaica immergendola
nel reggae e nel calore delle percussioni, fingendosi regista da Sundance
festival nell'approccio dinamico e moderno alla regia: spumeggianti
le riprese che fotografano fantasiosamente le sfumature della notte,
regalando un ritratto inedito delle periferie capitoline, libero e creativo
l'uso del montaggio, che isola come totem i graffiti, le vernici, quasi
un'epidermide nel rivestire l'anima di chi le ha prodotte.
Gli amici di Auro viaggiano sul furgoncino dei buoni propositi alla
ricerca degli assassini del loro amico, s'imbattono invece in storie
di ogni tipo che li lasciano con gli stessi interrogativi, ma ne pongono
di nuovi a noi, ospiti della loro Tortuga e delle sue regole. Soggiogati
dal blues metropolitano di Faccini, attendiamo con trepidazione il trascorrere
dell'ultima notte, la più minacciosa, la più inquietante,
un ponte sospeso tra il medioevo eterno dell'Europa ed un futuro di
insicurezza e di paure.
Bure Baruta, la Polveriera. La sirena
di allarme del serbo Goran Paskaljevic, fiero epigono di Cassandra,
ha suonato per tempo, ma l'incendio, come da programma, è scoppiato
ugualmente.
Come è ovvio che sia, perché il cinema scruta nelle viscere
come un aruspice, ma non prescrive farmaci.
Belgrado, figlia di un dio minorato di nome Milosevic, piange oggi le
sue macerie e le sue miserie, vittima di tutte le decisioni di tutti
quelli che possono decidere. La città può guardare indietro
nel film di Paskaljevic come in una specie di "Ritratto di Dorian
Gray". Invecchia e puzza di morte con lo scorrere della pellicola,
esibendo un che di beffardo e di sulfureo. E' il cabaret Balkan, signori,
e si ride, ma molto amaramente.
Bure Baruta è notte fonda, siamo in strada quando
sono già calate le tenebre e nessuno vedrà sorgere l'alba.
Tutto, e il contrario di tutto, accade di notte, in una sola notte.
Uomini e donne ridotti a fasci di nervi saturano la città di
rabbie e malumori.
Il loro palcoscenico è addobbato fantasiosamente e festosamente.
Genio slavo. Apparizioni e malie, depositate nell'immaginario cinematografico
a nome Fellini, a nome Kusturica, a nome Jakubisko, risorgono nel pandemonio
belgradese.
Come fantasmagoriche orchestre in navigazione sul fiume con il loro
carico di musicisti, come autobus dirottati da giovani impazienti e
sarcastici, con il loro carico di varia umanità.
Varia, varia umanità. Sfollati della guerra in Bosnia, ex-militari,
ex-poliziotti, ex-vittime, gente qualunque, tutti i tipi che Paskaljevic
ci mette davanti esibiscono storie paradossali, flirtano con l'assurdo,
vivono con fierezza l'anormalità. La danza macabra impegna tutte
le energie del grottesco, esplode in sarcasmi, sfiora il barzellettistico,
culmina in traumi e violenze. Qualunque sia l'esito delle loro vicende,
i protagonisti di Bure Baruta, spesso in movimento,
fuggiaschi sui treni, sott'acqua, per le strade, si immolano sull'altare
di un passato pervasivo, opprimente. Ferite scoperte, vecchie rivalità
e antichi torti, o semplicemente lo sgarbo e la provocazione di un attimo
prima.
E' metafora di una storia più o meno recente che non lascia spazio
alla riconciliazione. E' parodia dei rapporti umani di una sedicente
società civile che sa definire il suo status e i suoi criteri,
ma fa fatica a rintracciarsi sul mappamondo, coprendosi gli occhi di
fronte al fallimento dei Balcani, ma solo per dire il più eclatante.
La "normalità" di Bure Baruta prevede
coltellate sotto la doccia e bombe in valigia durante gli spostamenti
ferroviari. Altrettanto "normale" che alla fine del film la
polveriera esploda, rimpiendo di sinistri bagliori i fotogrammi finali
della pellicola.
Le ultime notti del ventesimo secolo coronate da effetti pirotecnici.
Il cinematografo annuncia con mesta generosità.
La CNN è già pronta con le telecamere.
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