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Omicidio in diretta,
Blackout e New Rose Hotel


De Palma e Ferrara: occhi di serpente
Primo Piano di Stefano Finesi



II titolo italiano Omicidio in diretta sembra fuorviante per la storia di un omicidio in continua, multiprospettica, "differita", ricostruito nel corso del film sguardo per sguardo, occhio per occhio. De Palma torna ossessivamente ad esplorare il tema della visione, pilastro di una poetica di dichiarata marca hitchcockiana e metacinematografica, e lo fa attraverso l'analisi serrata di quella che da semplice percezione diventa immagine mediata, tracciato interiore dello sguardo per trasformarsi infine in dramma della conoscenza.
"Snake eyes" allora, occhi di serpente, espressione ambigua che può anche riferirsi al punteggio più basso nei dadi, cioè al massimo della sfortuna, ma che soprattutto riporta alla mente un titolo già appartenuto ad Abel Ferrara per un film del '93 in cui, forse non a caso, era inaugurata una riflessione sui percorsi dello sguardo, sulla confusione di realtà e finzione, che Blackout e New Rose Hotel hanno reso ancora più complessa e stimolante. Il risultato, per due registi diversissimi, sono due teorie della visione (e del cinema), elaborate all'interno di prospettive quasi opposte, ma con insospettabili punti di contatto.
Iniziamo dal film di De Palma, iniziamo da due paradossi immediatamente evidenti, capaci da subito di spostare l'attenzione su una fondamentale dialettica visiva tra svelamento e occultamento del reale: l'omicidio, il dato obiettivo di partenza che innesca il meccanismo della ricerca, della detection di Nick Santoro-Cage, avviene sotto io sguardo di migliaia di persone durante l'incontro di boxe in un enorme casinò di Atlantic City, nonché sotto l'occhio infallibile delle telecamere, in una sorta di iperbolica visibilità che, se capovolge il cliché del delitto consumato nell'ombra, non sembra comunque facilitarne la ricostruzione né dissiparne l'ambiguità; il secondo paradosso e la stessa ricerca avviata da Cage, che all'inizio si muove per insabbiare l'accaduto ed evitare i sospetti sull'amico Gary Sinise, poi cambia direzione e imbocca la strada che lo porterà proprio a scoprire la colpevolezza di quest'ultimo.
Il percorso conoscitivo, che quindi finisce per legarsi alla drammatica rivelazione del tradimento segue varie tappe verso la globale comprensione della realtà, ognuna legata a uno sguardo-testimonianza che aggiunge, toglie, contraddice, e non è casuale il fatto che il punto di partenza e quello di arrivo siano due sguardi meccanici, due sequenze in video registrate dall'occhio delle telecamere. Cage capisce da una ripresa televisiva che l'incontro è stato truccato per creare un diversivo e da lì comincia a indagare, ascoltando il punto di vista di Tyler, il campione corrotto; e solo adesso lo spettatore può vedere (in differita) come si è svolto realmente il match, prima affidato per intero a un fuoricampo, mentre la cinepresa insisteva sulla platea e su un esagitato Cage. È importante sottolineare questo passaggio dal momento che De Palma produce il primo scarto tra l'angolo visuale dello spettatore e quello del protagonista, dopo averli cioè accomunati attraverso lo splendido piano-sequenza iniziale che percorre tutto lo stadio, è solo Cage ad assistere all'incontro, mentre noi ne restiamo inizialmente tagliati fuori.
Lo spettatore, insomma, sembra muoversi a un livello diverso, e, come vedremo, assiste dall'alto alla ricerca, all'accidentato percorso conoscitivo, non ne condivide i dubbi tormentosi né la tensione verso la verità dell'accaduto, che infatti finisce per essergli rivelata in anticipo: Cage passa al suo secondo testimone, l'amico Gary Sinise, che offre una versione contraffatta della vicenda, mentre noi, scavalcando le regole di un classico whodunit, veniamo a scoprire, e a vedere, che proprio lui è il responsabile dell'omicidio.
Il testa a testa si complica con l'entrata in scena della ragazza, contesa da entrambi in quanto probabile depositaria della verità. Ancora due fatti da evidenziare: la ragazza, innanzitutto, è miope e ha perduto gli occhiali, è un supertestimone ma i suoi occhi sono difettosi, nonché, a rincarare il paradosso, pur essendo la chiave di volta per la ricostruzione veritiera degli eventi, la sua presenza è resa ambigua e mistificatoria fin dall'inizio da un vistoso travestimento (dressed to kill?). Il secondo momento da porre in rilievo e la ricerca della stessa ragazza che Cage intraprende dalla sala di controllo del casinò, utilizzando, come in una cabina di regia, le decine di telecamere sparse per le sale da gioco; ancora una volta è l'occhio meccanico ad avere la meglio e a diventare fonte insostituibile di certezze.
De Palma continua con forza a sottolineare la presenza di due livelli percettivi: l'occhio umano dei suoi protagonisti, incapace di una visione globale, ancorato ai pregiudizi e a una congenita fallibilità, e quindi costretto ad una drammatica ricerca per ottenere il premio della conoscenza; l'occhio meccanico delle telecamere, punto di vista neutro e sovrastante, incorruttibile e irreversibile, fonte assoluta di verità. Ma tale è anche, e soprattutto, l'occhio stesso della cinepresa, l'occhio onnisciente guidato dalla mano del regista a cui va a legarsi a filo doppio il punto di vista dello spettatore, entrambi volontariamente collocati in una posizione privilegiata di distacco e dominio degli eventi. Ecco allora legittimato un virtuosismo come il dolly che, contro ogni verosimiglianza, percorre dall'alto tutte le camere d'albergo, scrutandone l'interno: celebrazione straordinaria del mezzo cinematografico e della superiorità del suo sguardo, da cui emerge per contraccolpo l'incapacità di orientamento dei protagonisti.
Ultima riprova di questa opposizione è la testimonianza risolutoria a cui Cage riesce ad accedere nel finale: se la ragazza gli rivela la cocente verità sulle responsabilità dell'amico, egli, non fidandosi, ricorre al video registrato da una telecamera nascosta di cui quasi nessuno è a conoscenza. Questa telecamera era nascosta dentro un enorme "occhio-dirigibile" che sovrastava lo stadio, e ha realizzato i fotogrammi fatali di Gary Smise men tre fa fuoco verso la vittima: De Palma ci mette davanti ancora un occhio meccanico, stavolta perfettamente assimilato nelle sembianze a un occhio umano, ma gigantesco, sovrastante, totalizzante, e quindi capace della testimonianza definitiva e incontrovertibile. La dialettica che abbiamo illustrato comporta, in Omicidio in diretta e in quasi tutto il cinema depalmiano, un'esuberanza del ruolo della macchina da pre sa, la sua glorificazione virtuosistica; c'è insomma una sorta di sbilanciamento a favore del polo dell'occhio meccanico, della visione globale (vedi l'uso, ricorrente nella maggior parte dei film, del ralenti e dello split-screen, forme di dilatazione delle capacità spaziotemporali della cinepresa), mentre assume un rilievo minore, o comunque dipendente dal primo, il faticoso processo conoscitivo intrapreso dall'occhio umano, messo in risalto di rimbalzo. È qui che possiamo innestare finalmente il discorso su Abel Ferrara, che, condividendo, come vedremo, gran parte di quell'opposizione, preferisce invece seguire (e farci seguire) i suoi personaggi nella tormentata e spesso inconcludente immersione nel reale, aderendovi quasi fisicamente, piuttosto che offrirne una distaccata panoramica dall'alto, preferisce cioè esplorare la disagiata condizione di occhio umano.
Blackout è la storia di un omicidio rimosso: ombra oscura e latente, segue e condiziona l'esistenza del protagonista Matthew Modine, incapace di ritornare a vivere una vita normale perché bloccato da un passato traumatico ma indecifrabile, insieme percepito e inconfessabile. L'occhio dell'uomo ha visto ma non può ammettere a se stesso (né a noi che guardiamo) di averlo fatto, il suo sguardo non è un possesso definitivo e stabile: la risoluzione finale è affidata al video morbosamente girato dal regista Dennis Hopper, che mostra il protagonista commettere il delitto con le sue stesse mani, e porta alla luce quel tormentoso evento del passato fino ad allora precluso sia al diretto interessato che allo spettatore.
Se il difetto dello sguardo in Blackout viene corretto, compensato, grazie all'occhio meccanico, l'occhio rivelatore in cui anche Ferrara sembra credere, la sfida di New Rose Hotel è più estrema. Christopher Walken e Wìllen Dafoe si occupano di spionaggio industriale e devono "rubare" il celebre scienziato Hiroshi a una casa di ricerche; per farlo si servono di una giovane prostituta di origine italiana, che deve addolcire ad Hiroshi il passaggio da un padrone a un altro. Lo stesso Dafoe si innamora di lei, in apparenza ricambiato, ma la ragazza tradirà tutti impietosamente. Fin qui il film procede normalmente, pur nelle cupe e ambigue atmosfere del cinema di Ferrara, quando, unico superstite della strage conseguente il tradimento, Dafoe si rinchiude in un fantomatico New Rose Hotel e rievoca l'accaduto, cercando di dargli un senso: assistiamo così, spiazzati, ad una sorta di replica di quello che finora abbiamo visto, senza però nessun intento risolutivo o chiarificatore. Quasi tutte le scene vengono ripetute in un estenuante tour de force, con leggere variazioni nell'angolo di ripresa e nei dialoghi, con piccole aggiunte e sottrazioni, ma senza reali possibilità di ricostruire effettivamente l'accaduto, in quanto il punto di vista a cui rimaniamo ancorati è quello limitato di Dafoe, vittima numero uno dei tradimento e quindi inevitabilmente legato ad una conoscenza parziale.
Anche il video è presente tanto più che il film è tratto da un romanzo di William Gibson, padre del cyberpunk, e dunque segnato da un consistente apparato tecnologico: lo scienziato Hiroshi compare soltanto attraverso le riprese fatte dai due protagonisti e il video, l'occhio meccanico, tende a configurarsi come strumento conoscitivo, di ricerca, ma che stavolta non sembra poter integrare l'operato dell'occhio umano. Ferrara non ci permette di ricostruire quello che è avvenuto, di collocarlo in un prospettiva razionale definita, ci inchioda unicamente al punto di vista di Dafoe, senza correzioni meccaniche, senza ricostruzioni a posteriori, come succedeva con il De Palma di Omicidio in diretta, cioè senza possibilità di incrociare altri sguardi, altre porzioni soggettive di realtà da mettere insieme (non conosceremo mai, soprattutto, il punto di vista della ragazza, che sarebbe illuminante).
Il New Rose Hotel è il luogo in cui ripara, sconfitto, l'occhio umano che ripercorre invano la sua storia e si arrende a una visione frammentaria, a una memoria lacunosa, delle quali Ferrara ci obbliga a fare la frustrante esperienza, il New Rose Hotel è il luogo di un cinema che non da risposte, che ci mette davanti alla nostra stessa debolezza senza offrirci vie di scampo, che nega la gioia di un senso definitivo e di una appagante, e quindi utopica, "visione globale".