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II titolo italiano Omicidio
in diretta sembra fuorviante per la storia di un omicidio in
continua, multiprospettica, "differita", ricostruito nel corso
del film sguardo per sguardo, occhio per occhio. De Palma torna ossessivamente
ad esplorare il tema della visione, pilastro di una poetica di dichiarata
marca hitchcockiana e metacinematografica, e lo fa attraverso l'analisi
serrata di quella che da semplice percezione diventa immagine mediata,
tracciato interiore dello sguardo per trasformarsi infine in dramma
della conoscenza.
"Snake eyes" allora, occhi di serpente, espressione ambigua
che può anche riferirsi al punteggio più basso nei dadi,
cioè al massimo della sfortuna, ma che soprattutto riporta alla
mente un titolo già appartenuto ad Abel Ferrara per un film del
'93 in cui, forse non a caso, era inaugurata una riflessione sui percorsi
dello sguardo, sulla confusione di realtà e finzione, che Blackout
e New Rose Hotel hanno reso ancora più complessa
e stimolante. Il risultato, per due registi diversissimi, sono due teorie
della visione (e del cinema), elaborate all'interno di prospettive quasi
opposte, ma con insospettabili punti di contatto.
Iniziamo dal film di De Palma, iniziamo da due paradossi immediatamente
evidenti, capaci da subito di spostare l'attenzione su una fondamentale
dialettica visiva tra svelamento e occultamento del reale: l'omicidio,
il dato obiettivo di partenza che innesca il meccanismo della ricerca,
della detection di Nick Santoro-Cage, avviene sotto io sguardo di migliaia
di persone durante l'incontro di boxe in un enorme casinò di
Atlantic City, nonché sotto l'occhio infallibile delle telecamere,
in una sorta di iperbolica visibilità che, se capovolge il cliché
del delitto consumato nell'ombra, non sembra comunque facilitarne la
ricostruzione né dissiparne l'ambiguità; il secondo paradosso
e la stessa ricerca avviata da Cage, che all'inizio si muove per insabbiare
l'accaduto ed evitare i sospetti sull'amico Gary Sinise, poi cambia
direzione e imbocca la strada che lo porterà proprio a scoprire
la colpevolezza di quest'ultimo.
Il percorso conoscitivo, che quindi finisce per legarsi alla drammatica
rivelazione del tradimento segue varie tappe verso la globale comprensione
della realtà, ognuna legata a uno sguardo-testimonianza che aggiunge,
toglie, contraddice, e non è casuale il fatto che il punto di
partenza e quello di arrivo siano due sguardi meccanici, due sequenze
in video registrate dall'occhio delle telecamere. Cage capisce da una
ripresa televisiva che l'incontro è stato truccato per creare
un diversivo e da lì comincia a indagare, ascoltando il punto
di vista di Tyler, il campione corrotto; e solo adesso lo spettatore
può vedere (in differita) come si è svolto realmente il
match, prima affidato per intero a un fuoricampo, mentre la cinepresa
insisteva sulla platea e su un esagitato Cage. È importante sottolineare
questo passaggio dal momento che De Palma produce il primo scarto tra
l'angolo visuale dello spettatore e quello del protagonista, dopo averli
cioè accomunati attraverso lo splendido piano-sequenza iniziale
che percorre tutto lo stadio, è solo Cage ad assistere all'incontro,
mentre noi ne restiamo inizialmente tagliati fuori.
Lo spettatore, insomma, sembra muoversi a un livello diverso, e, come
vedremo, assiste dall'alto alla ricerca, all'accidentato percorso conoscitivo,
non ne condivide i dubbi tormentosi né la tensione verso la verità
dell'accaduto, che infatti finisce per essergli rivelata in anticipo:
Cage passa al suo secondo testimone, l'amico Gary Sinise, che offre
una versione contraffatta della vicenda, mentre noi, scavalcando le
regole di un classico whodunit, veniamo a scoprire, e a vedere,
che proprio lui è il responsabile dell'omicidio.
Il testa a testa si complica con l'entrata in scena della ragazza, contesa
da entrambi in quanto probabile depositaria della verità. Ancora
due fatti da evidenziare: la ragazza, innanzitutto, è miope e
ha perduto gli occhiali, è un supertestimone ma i suoi occhi
sono difettosi, nonché, a rincarare il paradosso, pur essendo
la chiave di volta per la ricostruzione veritiera degli eventi, la sua
presenza è resa ambigua e mistificatoria fin dall'inizio da un
vistoso travestimento (dressed to kill?). Il secondo momento da porre
in rilievo e la ricerca della stessa ragazza che Cage intraprende dalla
sala di controllo del casinò, utilizzando, come in una cabina
di regia, le decine di telecamere sparse per le sale da gioco; ancora
una volta è l'occhio meccanico ad avere la meglio e a diventare
fonte insostituibile di certezze.
De Palma continua con forza a sottolineare la presenza di due livelli
percettivi: l'occhio umano dei suoi protagonisti, incapace di una visione
globale, ancorato ai pregiudizi e a una congenita fallibilità,
e quindi costretto ad una drammatica ricerca per ottenere il premio
della conoscenza; l'occhio meccanico delle telecamere, punto di vista
neutro e sovrastante, incorruttibile e irreversibile, fonte assoluta
di verità. Ma tale è anche, e soprattutto, l'occhio stesso
della cinepresa, l'occhio onnisciente guidato dalla mano del regista
a cui va a legarsi a filo doppio il punto di vista dello spettatore,
entrambi volontariamente collocati in una posizione privilegiata di
distacco e dominio degli eventi. Ecco allora legittimato un virtuosismo
come il dolly che, contro ogni verosimiglianza, percorre dall'alto
tutte le camere d'albergo, scrutandone l'interno: celebrazione straordinaria
del mezzo cinematografico e della superiorità del suo sguardo,
da cui emerge per contraccolpo l'incapacità di orientamento dei
protagonisti.
Ultima riprova di questa opposizione è la testimonianza risolutoria
a cui Cage riesce ad accedere nel finale: se la ragazza gli rivela la
cocente verità sulle responsabilità dell'amico, egli,
non fidandosi, ricorre al video registrato da una telecamera nascosta
di cui quasi nessuno è a conoscenza. Questa telecamera era nascosta
dentro un enorme "occhio-dirigibile" che sovrastava lo stadio,
e ha realizzato i fotogrammi fatali di Gary Smise men tre fa fuoco verso
la vittima: De Palma ci mette davanti ancora un occhio meccanico, stavolta
perfettamente assimilato nelle sembianze a un occhio umano, ma gigantesco,
sovrastante, totalizzante, e quindi capace della testimonianza definitiva
e incontrovertibile. La dialettica che abbiamo illustrato comporta,
in Omicidio in diretta e in quasi tutto il cinema depalmiano,
un'esuberanza del ruolo della macchina da pre sa, la sua glorificazione
virtuosistica; c'è insomma una sorta di sbilanciamento a favore
del polo dell'occhio meccanico, della visione globale (vedi l'uso, ricorrente
nella maggior parte dei film, del ralenti e dello split-screen,
forme di dilatazione delle capacità spaziotemporali della cinepresa),
mentre assume un rilievo minore, o comunque dipendente dal primo, il
faticoso processo conoscitivo intrapreso dall'occhio umano, messo in
risalto di rimbalzo. È qui che possiamo innestare finalmente
il discorso su Abel Ferrara, che, condividendo, come vedremo, gran parte
di quell'opposizione, preferisce invece seguire (e farci seguire) i
suoi personaggi nella tormentata e spesso inconcludente immersione nel
reale, aderendovi quasi fisicamente, piuttosto che offrirne una distaccata
panoramica dall'alto, preferisce cioè esplorare la disagiata
condizione di occhio umano.
Blackout è la storia di un omicidio rimosso:
ombra oscura e latente, segue e condiziona l'esistenza del protagonista
Matthew Modine, incapace di ritornare a vivere una vita normale perché
bloccato da un passato traumatico ma indecifrabile, insieme percepito
e inconfessabile. L'occhio dell'uomo ha visto ma non può ammettere
a se stesso (né a noi che guardiamo) di averlo fatto, il suo
sguardo non è un possesso definitivo e stabile: la risoluzione
finale è affidata al video morbosamente girato dal regista Dennis
Hopper, che mostra il protagonista commettere il delitto con le sue
stesse mani, e porta alla luce quel tormentoso evento del passato fino
ad allora precluso sia al diretto interessato che allo spettatore.
Se il difetto dello sguardo in Blackout viene corretto,
compensato, grazie all'occhio meccanico, l'occhio rivelatore in cui
anche Ferrara sembra credere, la sfida di New Rose Hotel
è più estrema. Christopher Walken e Wìllen Dafoe
si occupano di spionaggio industriale e devono "rubare" il
celebre scienziato Hiroshi a una casa di ricerche; per farlo si servono
di una giovane prostituta di origine italiana, che deve addolcire ad
Hiroshi il passaggio da un padrone a un altro. Lo stesso Dafoe si innamora
di lei, in apparenza ricambiato, ma la ragazza tradirà tutti
impietosamente. Fin qui il film procede normalmente, pur nelle cupe
e ambigue atmosfere del cinema di Ferrara, quando, unico superstite
della strage conseguente il tradimento, Dafoe si rinchiude in un fantomatico
New Rose Hotel e rievoca l'accaduto, cercando di dargli un senso: assistiamo
così, spiazzati, ad una sorta di replica di quello che finora
abbiamo visto, senza però nessun intento risolutivo o chiarificatore.
Quasi tutte le scene vengono ripetute in un estenuante tour de force,
con leggere variazioni nell'angolo di ripresa e nei dialoghi, con piccole
aggiunte e sottrazioni, ma senza reali possibilità di ricostruire
effettivamente l'accaduto, in quanto il punto di vista a cui rimaniamo
ancorati è quello limitato di Dafoe, vittima numero uno dei tradimento
e quindi inevitabilmente legato ad una conoscenza parziale.
Anche il video è presente tanto più che il film è
tratto da un romanzo di William Gibson, padre del cyberpunk, e dunque
segnato da un consistente apparato tecnologico: lo scienziato Hiroshi
compare soltanto attraverso le riprese fatte dai due protagonisti e
il video, l'occhio meccanico, tende a configurarsi come strumento conoscitivo,
di ricerca, ma che stavolta non sembra poter integrare l'operato dell'occhio
umano. Ferrara non ci permette di ricostruire quello che è avvenuto,
di collocarlo in un prospettiva razionale definita, ci inchioda unicamente
al punto di vista di Dafoe, senza correzioni meccaniche, senza ricostruzioni
a posteriori, come succedeva con il De Palma di Omicidio in
diretta, cioè senza possibilità di incrociare
altri sguardi, altre porzioni soggettive di realtà da mettere
insieme (non conosceremo mai, soprattutto, il punto di vista della ragazza,
che sarebbe illuminante).
Il New Rose Hotel è il luogo in cui ripara, sconfitto, l'occhio
umano che ripercorre invano la sua storia e si arrende a una visione
frammentaria, a una memoria lacunosa, delle quali Ferrara ci obbliga
a fare la frustrante esperienza, il New Rose Hotel è il luogo
di un cinema che non da risposte, che ci mette davanti alla nostra stessa
debolezza senza offrirci vie di scampo, che nega la gioia di un senso
definitivo e di una appagante, e quindi utopica, "visione globale".
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