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"Odio quando
nei film le canzoni crescono, crescono, con folle di persone e tutto,
e la cinepresa sale attraverso il tetto
Perché è
l'ultima canzone e poi il film finisce. Da piccola uscivo dal cinema
sempre dopo la penultima canzone
così non finiva mai
"
In Dancer in the Dark il musical prosegue parallelo alla cecità
di Selma, è la contropartita immaginifica la cui crescente intensità
serve a fronteggiare una realtà sempre più disperata (e
invisibile). Ma il nesso tra rimozione visiva del reale ed evasione
fantastica del numero musicale aiuta a capire la natura di questo genere
assolutamente atipico tra i generi cinematografici classici: l'unico
a chiedere alla spettatore di "chiudere un occhio", ossia
di sospendere la propria credulità, l'unico a forzare l'intoccabile
circuito chiuso della finzione.
Non è un caso, quindi, che buona parte dei musical tradizionali
(da A Star is Born di Cukor a A Chorus Line,
passando per The Band Wagon e Singin' in the
Rain) siano ambientati nel mondo dello spettacolo, dove la
preparazione di uno show di qualsiasi genere sostiene la filosofia del
"tutto il mondo è palcoscenico" e rende così
meno traumatica l'inserzione musicale, l'interruzione della verosimiglianza.
Dopo il sostanziale declino negli anni ottanta, il musical ha conosciuto
una nuova affermazione nei novanta, ma non nella veste di genere strutturato,
capace di nuovo di affacciarsi sul mercato (come, almeno per un certo
periodo, potrebbe essere successo al western), bensì come esperimento
d'autore, esplorazione passeggera attuata come il tentativo più
estremo del bricolage postmoderno. Proprio la capacità straniante
insita nel musical diventa così non più fonte di imbarazzo
da ricomporre il più possibile in un quadro armonico, ma punto
di forza da esibire sfacciatamente, marcando in modo vistoso la frattura
della verosimiglianza. Ballo e canzoni mettono in moto un sovvertimento
dello statuto finzionale proprio perché, nella maggior parte
dei casi che andremo ad analizzare, rivendicano un'assoluta incongruenza
con il resto del film.
Greatest Hits
Dimenticate artisti e palcoscenici: grigi borghesi e comodi soggiorni
prendono possesso del musical, con le conseguenze del caso. Il vecchio
Resnais, in Parole parole parole (On connait la chanson), più
che far cantare i suoi personaggi sembra lasciare che "vengano
cantati": il contesto è quello della commedia borghese agrodolce
e la messinscena non muta di una virgola quando sui dialoghi da camera
dei protagonisti si innesta una canzonetta. Gli attori cantano (in playback
sulle incisioni originali) come senza accorgersene, mantenendo l'impostazione
naturalistica della recitazione e il contraccolpo dello straniamento
che ne risulta riesce a denunciare la banalità delle situazioni,
realizzando una sorta di grottesco da salotto. Stesso ambiente borghese
anche per il Woody Allen di Tutti dicono I Love You (Everybody
Says I Love You, 1996), malgrado qui l'esperimento del musical, preceduto
non a caso dalla trovata del coro classico ne La dea dell'amore,
sembrerebbe avere tutte le carte in regola. Il cast variopinto erompe
improvvisamente in numeri musicali d'annata con annesse coreografie,
intrecciandole con il resto del film in modo alquanto tradizionale.
Il regista newyorkese, tuttavia, disinnesca il meccanismo dall'interno:
i suoi attori sono ballerini e cantanti altamente improbabili, impacciati
se non stonati (lo stesso Allen si prodiga con un filo di voce in "I'm
trough with love"), nonché incongruenti nella loro quotidianità
con il leggero scarto fantastico sempre necessario al numero musicale.
Ritroviamo così medici e pazienti a cantare in ospedale, con
tanto di gambe ingessate e sedie a rotelle, mentre Allen sottolinea
l'effetto lasciando inalterata l'illuminazione e ostentando per lo più
una camera fissa che ha proprio il compito di non trascinare lo spettatore
nell'esecuzione ma di lasciarlo distante, marcando comicamente l'assoluta
inadeguatezza degli esecutori.
Un congelamento simile, tale ricercata distanza, lo ritroviamo
anche in un film come Blues Brothers 2000 (id. 2000), seguito
maltrattato per il troppo illustre precedente, ma tappa coerente del
percorso intrapreso da Landis nel corso degli anni novanta. La scelta
del musical sembrerebbe qui decisamente più integrata, ma asseconda
in realtà un diverso indirizzo di regia. Il riconosciuto nume
tutelare del cinema demenziale, almeno da Oscar in poi, ha abbandonato
del tutto i condizionamenti della commedia come genere narrativamente
organico per dedicarsi a una pratica dell'assurdo più radicale:
il demenziale allo stato puro, a differenza del comico, non coinvolge
nella risata ma allontana, congela, scava un vuoto imbarazzante intorno
allo spettatore. In questa prospettiva (basterebbe considerare, per
lo scarto rispetto ai precedenti, un film come Beverly Hills
Cop 3) si può spiegare il carattere meno energetico
e più posticcio del ritorno dei fratelli Blues, l'atmosfera più
distante in cui vengono immersi i numeri musicali, che contribuiscono
al gioco continuo e sottile della sospensione del senso e obbediscono
a una strategia generale dello straniamento.
Più ardui, comunque, i confronti che il musical deve sostenere
con protagonisti veramente insospettabili: Branagh mette alle strette
nientemeno che il prediletto Shakespeare, già abituato nel corso
degli novanta a ogni possibile rimasticamento. Pene d'amor perdute
(Love's Labour Lost, 2000) diventa un amabile musical vecchio stile,
ambientato negli anni '40 e forte di un repertorio che va da Gershwin
a Cole Porter, ma anche, naturalmente, l'esperimento di un autore sensibile
sulla tenitura drammatica (infinita) dell'opera del bardo, un modo di
rendere omaggio alla sua grandezza proprio dimostrandone l'estrema flessibilità
davanti ogni contaminazione.
Il vero incontro impossibile è, invece, quello del musical con
la mafia, nell'incredibile parata grottesca messa in piedi da Roberta
Torre con Tano da morire (1997). Il gioco del pastiche e del
carnevalesco tocca qui vertici assoluti e la scelta del musical si rivela
perfettamente funzionale all'esibizione sfrenata del kitsch: l'interesse
della regista non riguarda la realtà del sud ma una sua dimensione
mitica assorbita attraverso uno sguardo esterno (quello di una milanese)
e riletta in una rappresentazione evidentemente straniante; non è
un caso allora che le canzoni scritte da Nino D'Angelo siano in napoletano,
malgrado l'ambientazione palermitana, e alimentino con la loro incongruenza
l'impressione di un calderone meridionalista completamente slegato dalla
realtà.
In The Hole (Dong, 1998), infine, Tsai Ming-liang fa in modo
che il numero musicale si sganci definitivamente dal resto della narrazione.
Prodotto dalla rete televisiva franco-tedesca "Arte" per la
serie L'année 2000 vue par
, il film si nutre di
un opprimente millenarismo, con la sua città abbandonata per
una misteriosa epidemia, l'assoluta incomunicabilità tra i protagonisti
e una terribile pioggia battente che neanche per un attimo abbandona
la colonna sonora. Tale atmosfera sordida, attraversata dai personaggi
come da presenze fantasmatiche, si squarcia improvvisamente grazie a
vivaci numeri musicali: i due protagonisti, fra le pareti squallide
del caseggiato inondate di colori sgargianti, si esibiscono in diversi
numeri facendo il verso ai vecchi musical hongkonghesi con Grace Chang
e quindi agli inevitabili modelli hollywoodiani. Sono brevi sipari senza
alcuna funzione narrativa, né sospettabili di un qualsiasi significato
che non sia pura nostalgia del sogno e dell'ingenuità di una
cultura ormai estinta all'approssimarsi del nuovo millennio, frammenti
di una comunicazione semplice e diretta ora non più attuabile
se non come reminiscenza astratta. Il sogno di Selma
La scelta di Lars von Trier di girare un musical è tanto più
paradossale (ma ricordate i brevi, immobili numeri musicali paesaggistici
de Le onde del destino?) se si pensa al - passato? - credo dogmatico
del regista: la cintura di castità, almeno per quello che appare
sullo schermo, rimarrebbe ben salda, con la grana a vista, la voluta
sciatteria del digitale riversato su pellicola e il tour de force di
una macchina rigorosamente a mano; ma i numeri musicali e il percorso
parallelo che tracciano all'interno del film, innescano nuove dinamiche
formali. Scherzando ma non troppo, von Trier dice che Dancer in the
Dark potrebbe considerarsi fedele al decalogo in quanto tale percorso
appartiene completamente a Selma, visualizza ciò che accade nella
sua testa. Egli sceglie per la messinscena di questi numeri-sogno di
non alterare l'impostazione formale di base se non fissando la camera
(l'unica eccezione è su "I've Seen It All",dove viaggia
sul treno insieme agli operai) e scandendo la scena con un montaggio
serratissimo, incaricato di riordinare il girato prodotto da ben cento
telecamere presenti sul set. È come se la fantasia di Selma si
attivasse come intersezione tra spazio reale e spazio mentale, comportando
sul piano della forma che l'impronta dogmatica passi al vaglio ritmico
dei tagli di montaggio, acquisti cioè un ordine musicale pur
restando se stessa. Solo nel finale, quando Selma muore e la sua vista
si spegne definitivamente, il contatto con la realtà è
reciso e lo spazio del film diventa puro spazio della fantasia: un dolly,
impensabile come pratica e figura filmica negli ultimi film del regista,
descrive un ampio, silenzioso movimento dal basso in alto, come nei
finali di quei musical che facevano fuggire Selma dalla sala un attimo
prima. Un solo movimento di macchina si carica così di un incredibile
potere di trascendenza, riesce ad esprimere attraverso la visione un
puro anelito spirituale, speculare al nero prolungato con cui il film
si apre. Ora il musical ha spodestato il reale e il sogno può
durare per sempre.
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