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^ Lavagne, di Samira
Makhamalbaf
I maggiori festival di cinema occidentali, premiano questanno
due film iraniani: Lavagne ha vinto a Cannes il Gran
Premio della Giuria , mentre il Leone doro di Venezia è
andata a Il Cerchio.
Sorprendentemente il primo è un film al maschile
girato da una donna, la giovane Samira Makhamalbaf, qui alla seconda
prova dopo La mela, il secondo è un film sulle donne
girato da un uomo, Jafar Panahi già noto al pubblico per Il
palloncino bianco e Lo specchio.
Le due storie anche se diverse, hanno un punto dunione: sono storie
di viaggio e resistenza.
Luna è un viaggio nei territori del Kurdistan iraniano,
laltra un viaggio nella Teheran moderna, due luoghi di frontiera
ideologica più che geografica, dove resistere significa soprattutto
non arrendersi
al nemico.
In Lavagne il titolo è perentorio, ma in modo
inusuale. Qui le lavagne del titolo, portate in spalla per laspro
territorio dai due maestri, trovano mille utilizzi meno quello a loro
deputato: insegnare a leggere e scrivere. Servono a trasportare feriti,
sostenere gambe rotte, riparare dai proiettili di cecchini, creare privacy
Lidealismo dei due maestri poi, non è così estremo,
dato che si accontenterebbero di un pezzo di pane, o di pochi soldi
in cambio del loro sapere.
Il difficile sta nel trovare qualcuno disposto anche solo a voler imparare
a scrivere il proprio nome, segno di unidentità quasi dimenticata,
nel più frantumato Iran. Così un maestro trova in un gruppo
di baby contrabbandieri la sua classe ideale anche se per poco, mentre
laltro imbattendosi in un intero villaggio di profughi darà
lunico suo bene, la lavagna, come pegno di matrimonio. Voler cercare
di creare un popolo libero attraverso la cultura sembra non sia possibile
qui, dove sia i vecchi che i giovani hanno lo stesso problema: fuggire,
mettersi in salvo, cercare di sopravvivere. Le situazioni surreali di
Lavagne ci consegnano la visione di un film originale,
a tratti geniale e divertente pur affrontando un tema che avrebbe una
facilità estrema a cadere nel consueto pietismo di molti film,
soprattutto occidentali. Questo modo di affrontare le storie e forse
, non lo sappiamo, la vita, è proprio del cinema iraniano già
noto al pubblico attraverso le opere di Abbas Kiarostami e Makhmalbaf
senior, che in questi anni hanno fondato unestetica, e quindi
unetica cinematografica che questo film ben difende, nutre e diffonde.
Anche Il Cerchio sinserisce brillantemente nel
discorso appena fatto.
E stato tracciato un parallelismo tra Jafar Panahi e Cesare Zavattini,
per il modo di affrontare un certo tipo di storie, oltre che per il
famoso pedinamento dei personaggi, usato anche nei film
delliraniano.
Egli smentisce e dice di non conoscere i film di Zavattini e neorealisti:
se questo sia vero o no non cinteressa poi più di tanto,
ma forse questa somiglianza è un elemento che il pubblico italiano
apprezza anche inconsapevolmente, per genetica cinematografica.
Con una struttura circolare il film narra, ma sarebbe meglio dire denuncia,
la situazione di penosa libertà coatta delle donne iraniane.
Linizio del film si apre con il pianto di un neonato, che alla
risposta è una femmina!, provoca nellansiosa
nonna un malessere dettato dal sapere che cosa questo significhi per
madre e figlia: la vergogna.
Le protagoniste del film fuggono nella loro città, Teheran. Fuggono
dalla costrizione e dal potere qui impersonato da quelle tre o quattro
figure maschili con cui vengono a contatto: padri, fratelli, mariti,
controllori di treno, poliziotti. Luomo è marginale in
questo film, è il grande escluso, è la presenza assente
che domina la loro vita.
Nel 1939 George Cukor realizzò Donne, film interamente
al femminile, dove non appariva mai nessun uomo, in fondo però
sempre presente nei discorsi della donne. Ma se Cukor ha realizzato
una divertente commedia, qui si parla di vita o di vita presunta.
Madri o puttane, ribelli o semplici mogli lavoratrici, ogni donna deve
lottare per avere il minimo: un biglietto dautobus, un pacchetto
di sigarette o ottenere il permesso per una semplice passeggiata.
Figura geometrica e ideale di una costrizione inflitta, il Cerchio,
si stringe intorno alle vite delle donne iraniane, strozzandole e relegandole
in un ruolo infimo, sede di una morte sociale che non lascia via di
scampo a nessuna.
Con lultima sequenza, come un serpente che si morde la coda e
che chiude il cerchio, troviamo tutte le protagoniste del film in quella
cella iniziale da cui sono fuggite. Sedute a terra vicine luna
allaltra, la panoramica circolare della camera ci mostra un luogo
mentale e metaforico, di reclusione ma anche di aggregazione. Il solo
luogo possibile, purtroppo, dove si possa parlare di donne tra donne!
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