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Young Adam,
Gb, 2002
di David MacKenzie, con Ewan McGregor, Tilda Swinton,
Peter Mullan
Non è necessario essere dei cultori del cinema porno per rendersi
conto di quanto la tanto chiacchierata scena della crema
in cui Joe/Ewan McGregor abusa della sua fidanzata, costringendola ad
un amplesso backdoor, dopo averla unta e bisunta con vari
ingredienti culinari, sia assolutamente priva di qualsiasi stimolo libidinoso
e si collochi nel flusso narrativo del film più come ostentazione
di una sorta di maledettismo forzato che non come caratterizzazione
dei personaggi e della vicenda.
Meglio, inoltre, non azzardare paragoni, in termini di pulsioni e turbolenze
morbose, con la scena analoga di Ultimo tango a Parigi:
erano altri tempi, altri scalpori e, tanto per entrare nel dettaglio,
altri lubrificanti.
Tuttavia la scena in questione costituisce una goffa eccezione nel percorso
a tappe erotiche che scandisce lo sbilenco vagabondaggio espiatorio
di uno sciupafemmine taciturno che sembra sapersi esprimere solamente
attraverso latto sessuale.
Più che un corpo, Joe è una carcassa senzanima che
vaga tra i torbidi canali fluviali della Glasgow anni 50: unambientazione
labirintica che combacia con il luogo mentale del protagonista, colpevole
indiretto della morte di una donna il cui cadavere viene risputato a
galla dal caso, così come il caso ne aveva determinato la scomparsa.
Ma, soprattutto, Joe è il connivente diretto della condanna a
morte di un innocente. A provocare limpiccagione del presunto
colpevole e a negare, di conseguenza, la redenzione che Joe andava confusamente
cercando è proprio la sua inazione , il suo esserci (al processo,
dentro se stesso) senza effettivamente agire, ma limitandosi esclusivamente
ad uno sfogo arbitrario dei propri ardori sessuali.
Ed è in questa inerzia, ristagnante come i solchi dacqua
melmosi e immersi nella caligine, che va cercato il tentativo di David
MacKenzie di portare sullo schermo lomonimo romanzo di Alexander
Trocchi. Limpianto narrativo è tutto proteso a fornire
la giusta introspezione del personaggio, sprofondato nei suoi dubbi
come le chiatte nella nebbia. Ma le sue motivazioni e le intime contese
di natura etica che lo assalgono rimangono decisamente (troppo) imperscrutabili.
Joe è il protagonista di un sogno tetro in cui passato e presente
si assorbono a vicenda, in cui il magma paludoso esterno si fa specchio
dellanima.
Mackenzie sceglie di smorzare ogni svolta narrativa lincidente
della ragazza, il commiato del marito tradito, la sentenza errata dei
giudici ma la ricusazione di qualsiasi climax drammatico si scontra
tuttavia con lintenzione latente di miscelare la tragedia allerotismo,
i tormenti psicologici alle dinamiche ansiogene di un noir cianotico.
Tali tentativi rimangono soffocati e pavidamente asfittici perché
arginati dal disegno registico di partenza: seguire attraverso i suoi
occhi un relitto umano rimanendo costantemente in superficie senza mai
calarsi negli abissi.
E regia e storia, dunque, si lasciano soverchiare, sotto il profilo
delleloquenza psicologica, sia dallaccuratezza della limacciosa
ed eccellente fotografia di Giles Nuttgens che dai suoni lividi e opprimenti
composti da David Byrne.
Il film oscilla tra la testarda negazione della descrizione del mondo
interiore di Joe secondo i canoni tradizionali e la messa in visione
degli stessi attraverso la cupezza del paesaggio. Ma linsistenza
con cui viene premuto il pedale del sottotono finisce per causare una
tremenda involuzione, un regresso narrativo che spazientisce e lascia
che ad emergere in superficie siano solamente gli aspetti più
semplicistici e, nel caso della scena erotica suddetta, anche quelli
più inconsistenti.
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