Wolf creek

Un’occasione mancata
di Simona M. Frigerio

 
  id., Australia, 2005
di Greg Mclean, con John Jarratt, Nathan Phillips, Cassandra Magrath, Kestie Morassi


The Blair Witch Project insegna: far credere che una storia sia vera, utilizzando immagini sporche e una eccellente campagna mediatica - che confonda i confini del vero con quelli del verosimile - paga. Convincere il pubblico che quanto sta guardando è veramente accaduto, ma che può goderne voyeuristicamente dalla comoda poltrona di un cinema, è l’obiettivo catartico dell’horror. In questo caso però, la corda si sfilaccia e si apprezza maggiormente la costruzione dei personaggi e dell’ambiente, piuttosto che l’orrore nel quale sono calati i protagonisti da un certo punto del racconto in poi. Il finale asciutto riscatta solamente in parte una buona mezz’ora di soporifera violenza gratuita.
La dicotomia stridente tra le due unità spezza la pellicola in modo irrimediabile. Per la prima mezz’ora si assiste a un esempio fresco e anticonvenzionale di cinema ispirato ai noti metodi da Nouvelle Vague: nessun set ricostruito, luci naturali, basso budget, ma altresì ad alcuni diktat di Dogma 95: MdP digitale con obiettivi ad alta definizione, attori eccellenti, concentrazione su pochi, scabri elementi essenziali. Il mix di colonna sonora elettronica e audio produce un effetto straniante, mentre le immagini scorrono alla velocità di "The Shield" con salti temporali sincopati e una fotografia ultrarealista. La veridicità dell’ambientazione si colora dei toni grigi dell’Outback australiano nella stagione delle piogge, vetture di terza mano comperate per poco più di mille dollari, canne e birre goduti in compagnia, sacchi a pelo e auto traboccanti di zaini, taniche d’acqua e benzina. Chiunque abbia percorso quei territori sa di non poterne fare a meno, che tra una road-house e la successiva si possono percorrere anche 70 o 80 km, l’acqua australiana sa di bicarbonato e i cieli plumbei possono rovinarti la giornata nonostante la fama desertica del continente rosso.
Ma ecco arrivare l’uomo nero - l’esile ombra di un Freddy Kruger che nel finale si allontana nell’Outback col suo cappello inconfondibile - e che per tutta la seconda parte del film cerca di spaventare lo spettatore, consapevole della propria intangibile sicurezza.
Cosa manca all’autentico horror? Forse Greg Mclean ha chiesto troppo a se stesso. Molte sono le teorie cinematografiche che affermano il legame indissolubile tra regista e sceneggiatore; saper scrivere con la penna e con la MdP non è però da tutti.
Le sbavature, i già visto, le incongruenze abbondano a un grado in cui persino l’adolescente - anzi, soprattutto l’adolescente - sorride, invece di spaventarsi. Ci sono risparmiati lo splatter gratuito e gli squartamenti di maniera, ma non è questo che spezza la tensione, anzi potrebbe esserne la forza, perché la tensione aumenta quanto meno si vede e più s’immagina, in una società dove l’abitudine alle scene di morte ha talmente saturato le nostre viscere, che un fiotto di sangue può poco di fronte all’orrore dei telegiornali.
Il meccanismo si spezza e lo sbadiglio affiora quando Liz - la protagonista - finalmente libera, invece di scappare, si dilunga in ricerche futili; quando, piuttosto che liberare l’amica Kristy, si nasconde in attesa di non si sa cosa; quando, potendo uccidere il killer, lo lascia vivo e vegeto e in grado di assassinarla; quando commette - uno dopo l’altro - tutti gli errori del genere, tutti i déjà-vu che da decenni soffocano lo spettatore dalle risa piuttosto che dal terrore.
Piccolo gioco di società: riscrivere la trama della seconda parte e inviarla en hommage al regista: Liz libera Kristy e insieme fuggono…; il killer si diverte a mostrare a Kristy i filmini delle altre vittime per aumentare il suo senso di terrore…; Liz uccide il killer e Ben - il loro amico australiano - si rivela il complice dell’uomo nero... Insomma: qualsiasi cosa piuttosto che assistere all’ennesimo tentativo di omicidio da parte della vittima nei confronti del carnefice. Che va a vuoto solamente per fare proseguire il film per un’altra mezz’ora di orrori più o meno posticci - tra i quali la pugnalata attraverso il sedile dell’automobile, Liz che perde tempo e, invece di scappare, si dilunga con le telecamere delle vittime - per dare modo al killer di raggiungerla e al regista di mostrare l’ennesima prova meta-cinematografica, assolutamente gratuita.
E infine una nota di genere. L’horror, come prova l’ultimo Dante presentato al Torino Film Festival in questi giorni, deve essere destabilizzante: nei confronti del pubblico e del potere. Questa è stata la forza di autori quali Carpenter o Cronenberg.
Al contrario, Wolf Creek aumenterà gli introiti dei tour-operator con una morale della serie: “Turista fai date? Ahi, ahi, ahi!” …e la sconfitta del macho dell’Outback passa da Priscilla e dalle sue girls, piuttosto che dalle squallide avventure di un Ivan Milat.