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Anita, Teresa, Valentina. Tre donne,
tre età differenti, tre città diverse. Attraverso la lettura
dei loro diari privati emerge non soltanto una parte di storia del movimento
femminile, ma laffresco di un ventennio, gli anni sessanta e settanta,
che ha trasformato definitivamente il volto dellItalia, purtroppo
maggiormente in negativo. Perché, a differenza che negli altri
paesi, in cui il ventennio della contestazione ha prodotto risultati
in profondità, migliorandone le sorti progressive, nellItalia
assassinata dai giornali e dal cemento, come cantava
quel De Gregori che oggi non esiste più, quello straordinario
periodo carico di potenzialità innovatrici si è spento
in un buio assoluto delle anime, delle menti e dei cuori. Certo, un
certo progresso tecnico, sul piano dei diritti, è frutto diretto
di quella stagione. Ma dal punto di vista culturale la società,
da allora in avanti, ha sempre confermato le ragioni del tragico urlo
di dolore pasoliniano nei confronti dello sviluppo senza progresso.
Ed è lattualità di questi ultimi anni che evidenzia
lulteriore accelerazione di un disfacimento totale. Siamo
sconfitti, uomini e donne, dopo il 77 e penso che i veri effetti
saranno lenti a insediarsi nelle nostre coscienze scrive
Valentina nel suo diario. Sembra rispondere in un certo senso proprio
a lei, quasi trentanni dopo, Marco Bellocchio ne il Regista di
matrimoni(rece/registadimatrimoni.htm), quando fa dire a un suo personaggio:
LItalia è un paese di cadaveri. Come
dargli torto? Soltanto i cadaveri non reagiscono al violento attacco
della parte più oscura della cultura italiana ai diritti individuali
e al libero pensiero, al corpo e allanima di tutti noi cittadini
senza più coscienza di cittadinanza. Un attacco che conferma
come lItalia sia ancora distante anni luce dallevoluzione
culturale del resto del mondo. E, come sempre nella storia di buona
parte del pensiero occidentale, il bersaglio privilegiato di questo
attacco violento e insopportabile è la donna.
In fondo, benché Alina Marazzi sostenga che sono stati tanti
i passi avanti nellemancipazione femminile, il titolo stesso,
ripreso da uno slogan delle operaie del Massachussets agli inizi del
Novecento, denuncia come, in realtà, il sistema di valori di
fondo, che blocca di fatto una reale emancipazione, sia sostanzialmente
immutato. Se per economia di scrittura siamo costretti a limitarci alla
questione femminile, allora è necessario dire che il problema
è che la società e la cultura italiane non hanno ancora
capito, nonostante anni di lotte e di rivendicazioni, che la condizione
della donna è una questione che non riguarda solo le donne ma
investe e deve investire tutti. E non lo hanno capito perché
il nostro paese non è semplicemente ignorante, rozzo e banalmente
patriarcale. Ma perché è profondamentalmente invischiato
nella melma misogina di un pensiero che va avanti da secoli, sia religioso
sia laico, come dimostrano le citazioni che scorrono prima dei titoli
di coda. Il tanfo di questa misoginia, che, per certi versi, appartiene
a tutto lOccidente, in Italia risalta di più, perché
sincista in una più generale cecità culturale dalla
quale altri paesi sembra stiano guarendo. La grande battaglia politico-culturale
oggi è questa. La questione femminile è il nocciolo fondamentale
della grande emergenza democratica di fronte alla messa in discussione
dei diritti di tutti e tutte. La messa in discussione di tre secoli
di emancipazione e di definizione dellidentità umana. Vogliamo
anche le rose denuncia tutto questo e, investigando il passato, svela
la persistenza nelloggi di un pensiero maschile malato che non
ha alcuna coscienza della propria malattia e non ne vuole sapere nulla
di guarire.
A partire dallo straordinario unOra sola ti vorrei,
il cinema di Alina Marazzi disegna i paesaggi dellanimo umano,
svela i tormenti, le angoscie ma anche le speranze e lessenza
vitale dellaltra meta del cielo. Commuovendo, senza la minima
traccia di retorica. Facendo Storia, quella vera, senza essere storicistico,
ma ridando nuova vita ai materiali del passato (fotografie, copertine
di fotoromanzi, diari, filmini di famiglia, film sperimentali e militanti,
inchieste televisive, pubblicità e via dicendo) che, dopo un
impressionante lavoro di ricerca, utilizza sapientemente, in una meravigliosa
rielaborazione poetica e politica, intima e collettiva al tempo stesso.
A dimostrazione di come gli unici spazi di profonda e reale vitalità
nel cinema italiano degli ultimi anni si possano ritrovare nellambito
di quellespressione che ancora, comunemente, ci si ostina a chiamare
documentario, ma che in realtà è cinema tout court, grazie
a una nouvelle vague di cineasti che sanno unire urgenza e sincerità
espressive, interesse per la realtà, riflessione sul linguaggio
e profonda sensibilità estetica. Fa riflettere come sia ancora
incompresa limportanza di questo cinema e di questi autori, vittime
eccellenti di un sistema di distribuzione e di una legislazione criminali
che li relegano allinvisibilità ufficiale.
Vogliamo anche le rose è, probabilmente, insieme
a il Mio paese di Daniele Vicari, uno dei film più
importanti del cinema italiano degli ultimi decenni. Perché appartiene
a un cinema che parla del passato per riflettere sul presente, un cinema
che si tuffa senza paura nella memoria e nella vita reale, entra dentro
le viscere dello spettatore, lo riempie di sé, gli stravolge
i sensi e la coscienza. Un cinema vivo che non perde la speranza e tenta
la rianimazione di un paese morto. Ultimi sparuti fuochi di vitalità
nella speranza che il morto resusciti. E che attenuano la voglia di
andarsene via dallItalia. Di andarsene per sempre, di
andarsene così come dicono i Baustelle, sublimi interpreti
della Fine.
Al sogno di una donna. A una donna da sogno.
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