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Vogliamo anche le rose
di Alina Marazzi, con le voci di Anita Caprioli, Teresa Saponangelo, Valentina Carnelutti

Vogliamo questo cinema
recensione di Alessandro Gambino



Anita, Teresa, Valentina. Tre donne, tre età differenti, tre città diverse. Attraverso la lettura dei loro diari privati emerge non soltanto una parte di storia del movimento femminile, ma l’affresco di un ventennio, gli anni sessanta e settanta, che ha trasformato definitivamente il volto dell’Italia, purtroppo maggiormente in negativo. Perché, a differenza che negli altri paesi, in cui il ventennio della contestazione ha prodotto risultati in profondità, migliorandone le sorti progressive, nell’Italia “assassinata dai giornali e dal cemento”, come cantava quel De Gregori che oggi non esiste più, quello straordinario periodo carico di potenzialità innovatrici si è spento in un buio assoluto delle anime, delle menti e dei cuori. Certo, un certo progresso tecnico, sul piano dei diritti, è frutto diretto di quella stagione. Ma dal punto di vista culturale la società, da allora in avanti, ha sempre confermato le ragioni del tragico urlo di dolore pasoliniano nei confronti dello sviluppo senza progresso. Ed è l’attualità di questi ultimi anni che evidenzia l’ulteriore accelerazione di un disfacimento totale. “Siamo sconfitti, uomini e donne, dopo il ’77 e penso che i veri effetti saranno lenti a insediarsi nelle nostre coscienze” scrive Valentina nel suo diario. Sembra rispondere in un certo senso proprio a lei, quasi trent’anni dopo, Marco Bellocchio ne il Regista di matrimoni(rece/registadimatrimoni.htm), quando fa dire a un suo personaggio: “L’Italia è un paese di cadaveri”. Come dargli torto? Soltanto i cadaveri non reagiscono al violento attacco della parte più oscura della cultura italiana ai diritti individuali e al libero pensiero, al corpo e all’anima di tutti noi cittadini senza più coscienza di cittadinanza. Un attacco che conferma come l’Italia sia ancora distante anni luce dall’evoluzione culturale del resto del mondo. E, come sempre nella storia di buona parte del pensiero occidentale, il bersaglio privilegiato di questo attacco violento e insopportabile è la donna.
In fondo, benché Alina Marazzi sostenga che sono stati tanti i passi avanti nell’emancipazione femminile, il titolo stesso, ripreso da uno slogan delle operaie del Massachussets agli inizi del Novecento, denuncia come, in realtà, il sistema di valori di fondo, che blocca di fatto una reale emancipazione, sia sostanzialmente immutato. Se per economia di scrittura siamo costretti a limitarci alla questione femminile, allora è necessario dire che il problema è che la società e la cultura italiane non hanno ancora capito, nonostante anni di lotte e di rivendicazioni, che la condizione della donna è una questione che non riguarda solo le donne ma investe e deve investire tutti. E non lo hanno capito perché il nostro paese non è semplicemente ignorante, rozzo e banalmente patriarcale. Ma perché è profondamentalmente invischiato nella melma misogina di un pensiero che va avanti da secoli, sia religioso sia laico, come dimostrano le citazioni che scorrono prima dei titoli di coda. Il tanfo di questa misoginia, che, per certi versi, appartiene a tutto l’Occidente, in Italia risalta di più, perché s’incista in una più generale cecità culturale dalla quale altri paesi sembra stiano guarendo. La grande battaglia politico-culturale oggi è questa. La questione femminile è il nocciolo fondamentale della grande emergenza democratica di fronte alla messa in discussione dei diritti di tutti e tutte. La messa in discussione di tre secoli di emancipazione e di definizione dell’identità umana. Vogliamo anche le rose denuncia tutto questo e, investigando il passato, svela la persistenza nell’oggi di un pensiero maschile malato che non ha alcuna coscienza della propria malattia e non ne vuole sapere nulla di guarire.
A partire dallo straordinario un’Ora sola ti vorrei, il cinema di Alina Marazzi disegna i paesaggi dell’animo umano, svela i tormenti, le angoscie ma anche le speranze e l’essenza vitale dell’altra meta del cielo. Commuovendo, senza la minima traccia di retorica. Facendo Storia, quella vera, senza essere storicistico, ma ridando nuova vita ai materiali del passato (fotografie, copertine di fotoromanzi, diari, filmini di famiglia, film sperimentali e militanti, inchieste televisive, pubblicità e via dicendo) che, dopo un impressionante lavoro di ricerca, utilizza sapientemente, in una meravigliosa rielaborazione poetica e politica, intima e collettiva al tempo stesso. A dimostrazione di come gli unici spazi di profonda e reale vitalità nel cinema italiano degli ultimi anni si possano ritrovare nell’ambito di quell’espressione che ancora, comunemente, ci si ostina a chiamare documentario, ma che in realtà è cinema tout court, grazie a una nouvelle vague di cineasti che sanno unire urgenza e sincerità espressive, interesse per la realtà, riflessione sul linguaggio e profonda sensibilità estetica. Fa riflettere come sia ancora incompresa l’importanza di questo cinema e di questi autori, vittime eccellenti di un sistema di distribuzione e di una legislazione criminali che li relegano all’invisibilità ufficiale.
Vogliamo anche le rose è, probabilmente, insieme a il Mio paese di Daniele Vicari, uno dei film più importanti del cinema italiano degli ultimi decenni. Perché appartiene a un cinema che parla del passato per riflettere sul presente, un cinema che si tuffa senza paura nella memoria e nella vita reale, entra dentro le viscere dello spettatore, lo riempie di sé, gli stravolge i sensi e la coscienza. Un cinema vivo che non perde la speranza e tenta la rianimazione di un paese morto. Ultimi sparuti fuochi di vitalità nella speranza che il morto resusciti. E che attenuano la voglia di andarsene via dall’Italia. “Di andarsene per sempre, di andarsene così” come dicono i Baustelle, sublimi interpreti della Fine.

Al sogno di una donna. A una donna da sogno.