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Zivot je cudo,
Serbia/Francia, 2004
di Emir Kusturica, con Aleksandar Bercek, Slavko Stimac, Natasa Solak
Si è parlato di ridondanza, maniera, stanca emulazione di se
stesso. Insomma a Cannes il nuovo film di Emir Kusturica
(ovviamente giunto in Italia con quasi un anno di ritardo rispetto alla
sua uscita al festival) non è piaciuto, o meglio è rimasto
sostanzialmente ignorato, cosa abbastanza singolare, dal momento che
da anni si parla (e sparla) di cinema europeo, anzi di immagine europea
e poi si ignora, o si guarda con sospetto, uno dei maggiori cineasti
europei in circolazione, magari con laccusa di soffermarsi troppo
a riflettere sul proprio stile, sul proprio modo di fare cinema, come
se fosse un difetto.
Come che sia, è meglio evitare le polemiche e andare direttamente
al film, che ovviamente è molto interessante, visivamente magnifico
e molto imperfetto, visto che Kusturica lo ha impostato quasi come riepilogo
di un periodo della sua filmografia, giunta a otto pellicole, se si
conta tra i lungometraggi quellaffascinante e sfuggente esperimento
che è Super8 Stories. Anzi, prima ancora di
arrivare al film, viene da chiedersi perché Kusturica abbia aspettato
tre anni (cinque se si contano gli anni che separano La vita
è un miracolo da Gatto nero, gatto bianco),
prima di partorire la sua ultima fatica. Siamo di fronte ad una crisi
di ispirazione, ad un momento di forte amarezza esistenziale, conseguente
al tragico decennio che ha sconvolto i Balcani, chiuso dalla guerra
del 1999, per lui che si è sempre definito jugoslavo, nel senso
cosmopolita e interetnico del termine, non certo in quello nazionalista
e filoregime?
Più che altro se crisi è stata, non va soltanto attribuita
ragioni extracinematografiche o politiche: più probabilmente
Kusturica si è trovato di fronte ad una fase maturativa del suo
percorso cinematografico, fase quasi fisiologica per un regista giunto
alla mezza età e che probabilmente gli eventi dei Balcani hanno
contribuito ad accentuare, ma non hanno provocato. Ciò che da
Arizona Dream a Gatto nero, Gatto bianco
fa capolino nelle pellicole di Kusturica è la presenza di una
forte angoscia per la morte, nascosta dietro lo sfrenato vitalismo barocco.
Daltra parte si potrebbe dire che dietro ogni manifestazione artistica
definibile barocca, si cela sempre unangoscia per il vuoto, per
il non senso nascosto tra le pieghe del sovraccarico rappresentativo.
Basti pensare allautore che costituisce il referente cinematografico
privilegiato di Kusturica, vale a dire Fellini, soprattutto da Otto
e mezzo in poi. Abbiamo detto, che una simile ossessione mortuaria,
che traspare già nelle primissime pellicole del regista serbo,
diventa esplicita nellelegia malinconica di Arizona Dream,
continua in Underground e Gatto nero, gatto
bianco, infine passa ad essere il centro poetico della riflessione
registica in Super8 Stories, dove lintero making
of di un film, il cinema stesso possono vedersi solo come una pausa,
un intervallo, prima della morte, rappresentata dalla storia e dalle
sue svolte imprevedibili.
Ed eccoci a questo La vita è un miracolo, che
diventa a questo punto una sorta di esorcismo registico nei confronti
della morte al lavoro e del suo manifestarsi più efficace e teoricamente
consapevole: la guerra. I referenti in questo caso sono chiari ed esibiti:
da un lato, ovviamente Fellini, dallaltro Capra e con lui levocazione
del cinema hollywoodiano più trasognato ed affabulatorio, che
Kusturica identifica con la produzione tra gli anni trenta e i cinquanta.
Di Fellini abbiamo la tendenza allonirismo, ad una presentazione
di immagini quasi senza raccordo, arricchita da una personale deriva
di Kusturica verso il realismo magico (che il regista riminese invece
evitò sempre), ma soprattutto la tendenza a destrutturare il
racconto, a farne il luogo di apparizioni di momenti di memoria slegati
tra loro e in cui il soggetto registico stesso si perde. Se ne La
vita è un miracolo abbiamo ancora un canovaccio narrativo
nella storia di Luka e Sabaha, con lo sfondo della guerra balcanica,
è vero che il villaggio, costruito per la bisogna, è da
subito un set, non una città, come la pseudorimini di Amarcord.
Se la cittadina sul litorale della pellicola felliniana è simultaneamente
un misto architettonico di varie città italiane dellItalia
fascista e provinciale e un luogo della memoria in cui i ricordi si
succedono senza ordine, assecondati dalla svagatezza della mdp, così
il villaggio di Kusturica è da subito un artificio, un set, che
rappresenta la ex Jugoslavia e, al contempo, un luogo della mente. In
questo schema quasi metafisico, popolato dai fantasmi di unimmaginazione
registica sovraeccitata, Kusturica inserisce lelemento capriano.
La novità del suo esperimento sta tutto nella collisione tra
il registro onirico percettivo felliniano e quello favolistico hollywoodiano
classico. Se il villaggio di Kusturica è un non luogo, unapparenza
fantasmatica, sta proprio alla fantasmagoria di personaggi ricalcati
su quelli di Capra ribaltare lineffabilità metafisica del
set in affermazione vitale, il tutto assecondato da una regia ancora
più frenetica che nelle precedenti pellicole. È interessante
a questo proposito sottolineare il modo in cui Kusturica utilizza il
rimando pittorico di Chagall: per nulla interessato allirrealtà
del modello proposto, di Chagall al regista serbo interessa soprattutto
lelemento aereo, che rompa con la composizione, che dissolva leffetto
quadro nel colore, un procedimento che potremmo ben definire barocco,
dando a questo termine uninterpretazione estensiva e non storica
in senso stretto. Così lelemento carnascialesco, soprattutto
in questo suo ultimo lavoro, e proprio in contrapposizione alla rigida
scansione temporale dettata dal tempo storico (la guerra di nuovo),
dissolve lintelaiatura rappresentativa del film, a livello spaziale
e narrativo.
La peculiarità del registro desiderativo in questo film di Kusturica
è proprio quella di non inserirsi nel tempo storico come elemento
attivo di cambiamento, ma come disturbo, inciampo, risoluzione di una
regola (da qui lattenzione, ancora maggiore che nelle altre pellicole,
rivolta agli animali e alla loro istintualità). Da qui anche
la peculiarità della sua posizione politica e poetica: la Jugoslavia
sognata che tratteggiava nei suoi film attraverso un uso molto abile
dello stereotipo, culminante nella sequenza finale di Underground,
dove lisola di Utopia era anche unisola dei morti, diventa
qui, proprio in quanto Utopia, irraggiungibile, un miracolo cui si tende,
ma che rimane per essenza evanescente, impigliata nellattimo di
entusiasmo carnascialesco, che non può assolutamente diventare
quotidiano. Come si riflette tutto questo nella costruzione filmica
e soprattutto nella riflessione stilistica di Kusturica? Si riflette
nella decisione del regista serbo di accentuare il lato rituale e basso
comico del suo cinema. Si arriva quasi allautoparodia, ma questo
risultato è il frutto deliberato di una volontà registica
che insiste sugli elementi canonici della propria maniera, per rileggerli
in maniera sempre più virtuosistica e prolungare leffetto
esorcismo del film stesso. Se dietro questa scelta si celano crisi e
disperazione esistenziale, Kusturica reagisce così, rilanciando
sul suo stesso cinema e curvandolo in una serie di parafrasi.
In fondo, fare il catalogo della propria poetica è un modo di
integrarla e arricchirla e infatti ora ci sono ben due progetti portati
avanti dal regista serbo. Si può ben sperare che la crisi sia
superata.
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