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Safar e Ghandehar, Iran / Francia, 2001
di Mohsen Makhmalbaf, Nelofer Pazira, Hassan Tantai, Sadou Teymouri, Hoyatala Hakimi
Mentre piovono le bombe su Kandahar, nel film di Makhmalbaf piovono
gambe. Paracadutate dagli aerei, mentre una folla di storpi corre come
può ad accaparrarsene un paio, sono le protesi rudimentali che
dovrebbero compensare quanto le mine anti-uomo hanno mutilato. Viaggio
a Kandahar è un film sulla mutilazione.
Mutilazione fisica, portata dalla guerra intestina che dilania l’Afghanistan
da vent’anni, e mutilazione spirituale, perché quelle gambe che
volteggiano libere nell’aria non possono non richiamare le gambe femminili
nascoste sotto il burqa, l’abito-grata che ricopre le donne per intero,
in un paese in cui solo far vedere le caviglie costa loro la fustigazione
pubblica.
Nafas, la protagonista, torna dal Canada nel suo paese d’origine, per
salvare la sorella che ha deciso di togliersi la vita prima dell’eclissi
di sole che sta per verificarsi: il suo viaggio, da donna libera e ormai
culturalmente occidentale, è quello del progressivo seppellimento
della propria identità, un oscuramento morale di cui il burqa
è solo la manifestazione visibile. Nell’inquadratura che apre
e chiude il film, Nafas sente infatti il bisogno di pronunciare a noi
e a se stessa il proprio nome, prima di calarsi il velo sul volto: nafas
in arabo sta per “respirazione” e la donna compie così il suo
ultimo respiro prima di vivere sulla sua pelle l’esperienza di una rimozione
sociale (e sessuale) completa. Nessuno sbocco all’esterno è possibile
in senso autonomo, ma solo se funzionale alla famiglia e al suo capo,
come sanciscono le foto ricordo scattate prima di attraversare il confine.
L’intelligenza della denuncia di Makhmalbaf sta tuttavia nell’enfatizzare
non tanto la violenza di tale repressione quanto le piccole scappatoie
messe in atto dall’altra parte, nel lasciar trapelare pochi momenti
di pudico erotismo in cui dietro il velo si può sentire ancora
pulsare la vita: le donne che in una bancarella fanno incetta di bracciali
e gioielli da pochi soldi, mani rugose che non rinunciano a concedersi
lo smalto rosso sulle unghie e, soprattutto, la lunga, straordinaria
sequenza del medico che cura le pazienti attraverso un velo dotato di
un’unica apertura circolare. La bocca, gli occhi, gli orecchi, emergono,
con una potenza straordinaria, a rivendicare da quel buco la propria
esistenza.
Non possiamo conoscere la conclusione del viaggio di Nafas, ma la sua
missione ha una scadenza altamente simbolica: quando anche al sole sarà
imposto di nascondere il suo volto, ogni speranza sarà perduta. |