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id.,
Usa, 2004
di Stephen Sommers, con Hugh Jackman, Kate Beckinsale,
Richard Roxburgh, David Wenham
Disorientato da e ormai indiscriminatamente incrociato con tutti gli
altri mezzi di comunicazione e di spettacolo, il cinema sembra perdere
progressivamente la sua identità, senza riuscire ad acquistarne
un'altra. Sospeso in una zona mutante e grigia, forse condannato ad
una fluidità senza fine, lo spettacolo cinematografico contemporaneo
tende a liberarsi di ogni limite e guida. Van Helsing
incarna perfettamente questo smarrimento coatto, tracciando esemplarmente
una bozza in senso negativo della crisi del racconto e della messa in
scena nel blockbuster contemporaneo.
E' un preciso progetto estetico - anche se, ovviamente, perseguito con
la speranza di fare qualcosa di interessante - quello di Stephen Sommers
(Deep rising, la Mummia, la
Mummia - il ritorno), il quale si preoccupa di soffocare il
racconto con macroesplosioni audio-video, di mantenere altissimo e frammentatissimo
il livello del suono e dell'azione piuttosto che servire le valide intuizioni
di fondo della storia. Che sono decisamente interessanti: incrociare
i destini di alcuni dei personaggi classici dell'immaginario fanta-horror
hollywoodiano (Dracula, il mostro di Frankenstein, il cacciatore di
vampiri Van Helsing) alla maniera dell'Alan Moore de "La lega degli
straordinari gentiluomini", ma con uno spirito - e questa è
l'originalità dell'operazione - molto più ridanciano e
coatto. Il tutto impregnato di ironia e auto-ironia in grosse quantità.
Ed è qui che il film instilla nello spettatore i primi sospetti
sulla qualità del controllo dell'operazione da parte dei realizzatori.
Ogni cosa in Van Helsing si può buttare in scherzo,
all'occorrenza. Oppure si può prendere terribilmente sul serio,
sempre all'occorrenza. Ma qual è il discrimine? Quando è
necessario ridere di personaggi e azioni e quando è importante
creare situazioni autenticamente emozionanti? Sommers e i suoi collaboratori
non hanno alcuna apparente direzione o cifra comprensibile nell'esercitare
questo discrimine (esemplare il terribile, fallimentare finale iper-romantico),
spersi in una messa in scena esageratamente furiosa in cui è
impossibile cogliere con intensità altre emozioni che non siano
la botta di adrenalina per un colpo di subwoofer o per l'attacco di
un vampiro alato, reiterato fino allo svuotamento di senso. C'è
una storia, sotto Van Helsing, ma non c'è una
storia intorno a Van Helsing, soffocata dall'urlo
ingolfante e infantile di immagini e suoni, troppo organizzati per raggiungere
una dimensione concettuale o sperimentale, ma insieme troppo poco controllati
per servire il racconto come merita. Van Helsing oltrepassa
il limite dello spettacolo che, come vuole la prima regola dello show
business, deve continuare, affermando con violenza che ormai obbligo
del cinema è ridondare, risuonare su e di se stesso
fino allo sfinimento. Anche a costo, come in Van Helsing,
di diventare paradossalmente noioso quando il reiterare all'infinito
delle esplosioni di messa in scena mostra dietro di se il vuoto, prosciugando
il senso della sorpresa, che cessa di essere tale per diventare norma.
E Sommers, regista-sceneggiatore-produttore, diventa un vero e proprio
paradossale, impossibile auteur-shooter: un "autore"
- che ha cioè un vasto controllo del suo lavoro creativo - e
contemporaneamente, seguendo la fulminante definizione di John Carpenter,
uno shooter, uno a cui interessa solo girare, che apparentemente
non ha altro talento e visione che per la performance della ripresa,
curandosi poco o niente di tutti i restanti elementi che rendono tale
il racconto cinematografico. Un "realizzatore mostruoso" (che
in Van Helsing regala comunque alcune esaltanti sequenze
d'azione), una figura ironicamente e involontariamente in linea con
i personaggi che racconta e forse con le esigenze della parte più
vasta del pubblico contemporaneo. Ma, a causa di o nonostante questo,
irrimediabilmente legato ad una poetica dello stordimento la cui prospettiva
di ipertrofia esponenziale non apre altri orizzonti che quello di una
definitiva esplosione delle forme, un entropia del mezzo rapida e dolorosa
che non lascia speranza di futuro.
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