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l’Uomo dell’anno
Man of the year, Usa 2007
di Barry Levinson, con Robin Williams, Laura Linney, Christopher Walken, Jeff Golblum

Beppe Grillo al potere
recensione di Emanuele Boccianti



Che succederebbe se un giorno un comico diventasse il presidente degli Stati Uniti? Niente. Infatti non succede. Chissà, magari ci sono dei sottotesti nel messaggio de L’uomo dell’anno che non meriterrebbero una frettolosa archiviazione; magari la constatazione finale di Levinson, appena riportata, si può rivelare più sapida del previsto. Ad ogni modo, sembra abbastanza evidente che non è il testo a contenere la parte migliore del film: quel testo secondo cui Tom Dobbs, una specie di Beppe Grillo d’oltreoceano, prende sul serio l’invito di uno dei suoi numerosissimi fans e si candida alle presidenziali come indipendente, e vince. Certamente Tom Dobbs ha il volto di Robin Williams –ed essendo un film di Barry Levinson, Williams, come dire, ci sta tutto- ed è un volto segnato da nuove rughe e illuminato dal suo bonario istrionismo, piccante come un salatino da party, e il film è quasi tutto lui, fatto salvo il ruolo di Christopher Walken, il manager infartato, e Laura Linney, tesa e solitaria. Certamente, si penserebbe, questa è una commedia. Certamente, è la risposta, ma fino ad un certo punto, più o meno fino alla fine del primo atto: una mezz’ora scarsa. Poi arriva la Linney, e il film tenta la starda tortuosa del thriller, più o meno, con un occhio alla commedia, ma un occhio sempre più sfocato. C’è un inghippo legato alla faccenda delle elezioni, c’è qualcuno che sa troppo, altri che vogliono a tutti i costi che non parli; in mezzo, Beppe grillo al Potere. Non appena subentra il registro mystery la storia comincia a girare a vuoto, Williams resta tagliato fuori dal suo ambiente naturale (quello per cui avevamo pagato il prezzo del biglietto), e dirada la caratterizzazione del suo personaggio, diventa serio perché la situazione sembra seria, e però è impettito, legnoso, tocca aspettare quei pochi minuti di show televisivi qui e là per divertirsi davvero. Nel frattempo tocca anche sorbirsi Laura Linney incastonata in una partitura vagamente hitchcockiana piena di buone intenzioni. Si arriva al termine del film salutando un finale con cui si aveva già fatto amicizia già da troppo tempo, chiedendosi che succederebbe se Robin Williams fosse –nel film- divenuto presidente d’America. Promemoria per un possibile sottotesto della pellicola: forse che Levinson non fa diventare davvero Tom Dobbs presidente perché intende dire che l’America, da un punto di vista politico, non è pronta a farsi guidare da una prospettiva più ironica e più indipendente? In tal caso, sottrarre una stella alla valutazione complessiva della qui presente recensione.