Tulse Luper: la storia di Moab
La visione nella storia (della visione)
di Francesco Rosetti

 
  Tulse Luper Suitcases: The Moab Story, GB, Spa, Ita, Lux, Ola, Rus, Ung, 2003
di Peter Greenaway, con JJ Field, Valentina Cervi


Ogni volta la stessa storia: esce un Greenaway (difficile parlare di film di Greenaway, e più avanti cercheremo di spiegare il perché) e la genia dei recensori nostrani, còlta da improvvisi capogiri e vertigini dovuti all’assenza di immagini precotte (o con la nota a piè di pagina), si produce in una serie di aggettivi sconnessi, a mezza via tra l’ insulto e la deificazione. In fondo, il regista inglese, in piccolo, riesce a provocare le stesse reazioni contraddittorie di scandalo-meraviglia che, a livello di diffusione di massa, provoca Von Trier. Tanto può un’immissione anche minima di concettuale nella morta gora dell’ambito critico nazionale (ed anche a livello internazionale non si scherza). Con questo non vogliamo dire che il regista inglese o il guru danese siano sempre e comunque le punte ispirate di un’avanguardia del pensiero e dello spirito ingiustamente perseguitate (o idolatrate, che in fondo è la stessa cosa), ma solo far notare come basti la minima deviazione da canoni straconosciuti di produzione-ricezione del film, per provocare un tragicomico balletto interpretativo di una critica affetta da “naturalis indolentia”. Il fatto è che, davvero, la pellicola sconcerta, respinge nella sua ipertrofia sperimentale, è colma di momenti irritanti, autoreferenziali, di intellettualismo compiaciuto. Disagi che sono aumentati dal fatto che Greenaway scardina non solo le modalità di produzione del senso del film (la pellicola e le sue forme), ma anche quelle di ricezione, vale a dire il dispositivo cinema, la sala (forse Tulse Luper non è adatto ad essere visto al cinema, nei cinema intesi come luoghi fisici). Però, prima di emettere un giudizio negativo, bisognerebbe sottolineare come una simile confusione masturbatoria si inscrive naturalmente come possibilità, potenzialità nel progetto registico di Greenaway, non come intralcio. E’ stato detto e scritto dai denigratori che Tulse Luper non sia cinema, casomai videoart, installazione, saggio teorico per immagini, più adatto ad un museo, ad una galleria che ad un festival di cinema, vuoi Cannes o Venezia. Troppa avanguardia, troppo sperimentalismo, nessuna idea coerente di cinema. Sarà, ma allora bisognerebbe stabilire con precisione definitoria (definitiva), cosa sia cinema e cosa no, mettere a fuoco dei contorni netti e marcati che separino il cinema dalle altre arti, visive e non, proprio ora che i suddetti confini tendono a sfumare sempre di più (parole d’ ordine: ibridazione e contaminazione). In realtà lo sconcerto di fronte all’opera di Greenaway nasce dal fatto che La storia di Moab sia sì cinema, ma forse non un film e qui, allora, bisognerebbe approfondire la differenza tra il medium linguistico-cinema e l’oggetto-film. Troppo per una recensione.
Basterà dire che agli occhi di uno spettatore mediamente sprovveduto un film presenta sempre una certa organicità e coerenza, anche dopo tutte le retoriche su ‘opera aperta’ e simili. Non è solo una questione di narrazione, antinarrazione, drammaturgia più o meno assente o rigide gabbie hollywodiane, a meno di non ridurre il cinema alla sceneggiatura e al suo corretto svolgimento in immagini. Ogni opera si basa comunque su procedimenti formali, linguaggi, figure retoriche quantomeno affini, che la rendano leggibile come insieme compiuto formalmente. Un film girato essenzialmente in piano sequenza tenderà comunque ad escludere il montaggio come procedimento linguistico; un film naturalistico tenderà ad eliminare calligrafismo estenuato e pittoricismo dell’immagine; un film centrato sull’attore di norma non presenterà un lavoro sullo spazio compositivo dell’inquadratura come valore formale in sé. In questo Eastwood come Botelho, Antonioni come Spielberg sono tutti autori che lavorano all’interno della forma film. Ebbene in Tulse Luper viene a mancare proprio questo: non esiste la volontà di ottenere una simile compiutezza visiva. Le più scaltrite tecniche di composizione, figurazione e rappresentazione si susseguono senza posa e, apparentemente senza costrutto. Nel minestrone possiamo trovare un lavoro sulla luce degno di un fiammingo del XV secolo che produce tableaux vivant perfetti, abbinato a didascalie pseudonarrative, splitscreen usati sia in funzione narrante, sia come semplice frattura dell’unità di quadro, riprese en plein air seguite da pezzi girati dentro evidenti scenografie teatrali, sovrimpressioni, ralenti, personaggi visualizzati come icone di un desktop e tutto il bric-a-brac di un secolo di tecnologie audiovisive. Siamo alla maniera, anzi al manierismo esibito. Ma perché Greenaway fa la conta, l’inventario di tutte le tecniche figurative usate nel ventesimo secolo e anche più indietro? Per manierismo appunto. I termini manierismo e maniera vennero usati compiutamente per la prima volta da Giorgio Vasari nelle sue Vite per distinguere la generazione di pittori seguente al periodo della ‘Bella maniera’ di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Vale a dire una generazione che aveva visto crollare il razionalismo estetico rinascimentale proprio sotto gli esperimenti sublimi dei tre maestri citati. Il razionalismo prospettico rinascimentale andava in crisi come modalità conoscitiva, ma dava la stura ad un infinito rovello formale. Era solo un linguaggio e come tale consentiva infiniti giochi con i segni. Greenaway è sempre stato convinto di vivere in un’ epoca di manierismo e formalismo e a questa infinita possibilità di ludus con le forme si è applicato. Il suo obiettivo non è molto diverso da quello ricercato da Tarantino in Kill Bill. Solo che Tarantino gioca con il linguaggio e la natura archeologica della visione dentro una struttura narrativa in cui coinvolgere lo spettatore, Greenaway no. Egli costruisce un presunto apologo sul ventesimo secolo e lo utilizza solo come piattaforma per tutti i suoi esperimenti visivi. L’inglese non indulge a vezzi d’ avanguardia, non è meno postmoderno di Tarantino o Lynch. Solo che questi ultimi seguono un canovaccio, il genere (il gioco tacito è immedesimarsi senza credere), e, in qualche modo, assecondano lo spettatore, Greenaway no. I suoi vezzi si susseguono infischiandosene del plot, a volte senza neanche legarsi tra loro. E’ solo la scelta di non assecondare le strutture del film, la forma film, tutto qui. La Storia (La ‘S’ maiuscola è d’ obbligo) diventa solo un contenitore della storicità delle forme e della loro infinita trasmutazione. Il regista contempla questa spettacolare libertà delle forme e ne fa il catalogo non la sintesi critica. La sua saggistica audiovisiva vive di accostamenti, non di giudizi, lo stesso autore si aggira stupefatto nel suo film e nei suoi virtuosismi.Come Tulse Luper non fa che riempire le sua valige con tutto quello che gli capita a tiro. Alla ricezione di chi guarda spetta la rielaborazione del tutto. Freddezza? Gioco gratuito e incomprensibile? Può essere, e questo rende il suo lavoro, più che bello o brutto, ingiudicabile come lungometraggio, ma da qui a parlare solo di masturbazione visiva ce ne corre. E poi, se il cinema è solo linguaggio non è che i grandi registi tornati al classicismo di regia (esempi vicini nel tempo: Eastwood, Polanski, Weir) non sappiano che la ricezione dei loro lavori non sia più quella degli spettatori anni ’50 che credevano a quanto vedevano (alla verità contenutistica) e che i loro film risultino tutt’altro che lineari e trasparenti (ed è il loro grande pregio). Anche loro come Greenaway, fanno sperimentalismo, ma senza darlo a vedere. Per interpretare Tulse Luper almeno mettiamolo prima in un contesto cinema.